Giugno 1886.

Tra le suore dello spedale X…. ho conosciuto, tempo fa, suor Carmelina, una giovane donna sottile e bianca, bianca come una Vergine di cera, pallida come un’ostia nell’ombra. I malati la chiamavano la santarella; ella sorrideva sempre, parlava sempre sottovoce, pronunciava s la z e tratto tratto diceva a’malati: Benedeto! Benedeto da Dio! Era veneziana, tutta piena di quella dolcezza de’ modi e dell’anima onde quei del veneto son pieni.

Come era divenuta monaca? Nessuno me lo seppe dire. E da quanto tempo ella aveva abbandonato il mondo e Venezia bella? Tutte queste monacelle, benedete, hanno il loro piccolo dramma chiuso in cuore, e un mistero nascosto nell’anima. Alcune volte gli occhi luccicano, si velano d’una lacrima, le mani bianche fremono, la bocca freme, il respiro ansioso gonfia il petto coverto dalla tonacella. Ma andate a chiedere loro perchè fanno così, o tentate di impadronirvi di quella bianca mano fremente o cercate di interrogare quella lacrima! Fuggono, si chiudono nelle piccole stanzucce a vetri, evitano di ricomparirvi innanti, vergognose. Soltanto la piccola stanzuccia a vetri sa il mistero della piccola suora. Nessuno ha mai potuto udire i singhiozzi di una piccola suora.

***

Io chiedevo sempre a un mio povero amico, ricoverato in quello spedale, che ne pensasse di suor Carmelina. Si capisce; ogni giovanotto, in presenza d’una di queste figlie della carità, prima vede la giovane donna, poi vede la monaca. Imagina sempre un sacrifizio, si appassiona e s’intenerisce.

L’amico, un commesso viaggiatore, al quale una caduta avea quasi spezzata la gamba sinistra, stando in bolletta s’era salvato allo spedale. Veneto pur lui aveva ben presto stretto amicizia con suor Carmelina. La trovava semplicemente una buona putela, una fia de la Madona.

Io lo andavo a vedere tre volte alla settimana, poi finii per recarmi a trovarlo quasi tutti i giorni. Si cominciava a parlare della gamba anchilosata e si cascava, subito dopo, a chiacchierare di suor Carmelina.

— Non le hai mai domandato perchè s’è fatta suora?

— Mai. E perchè? Non me lo avrebbe detto. Parla poco.

— Ma con te, che sei compaesano suo, potrebbe far eccezione alla regola.

— La regola — rispose il mio amico, sorridendo — impone il silenzio alle suore, specie coi giovanotti malati, specie alle suore giovani.

— Senti, caro mio, francamente io vorrei trovarmi qui, in questo tuo letto.

— Con gli stessi dolori?

— Con gli stessi dolori.

— Con la stessa gamba impacchettata? Con la stessa smania di volere e di non poter uscire a vedere il sole, a veder camminare la gente per via, a vedere le carrozze, a camminare? Va là, tu scherzi. Siamo troppo amici. Nemmeno ai cani lo auguro.

— E io vorrei essere qui, nel tuo letto.

— Per vedere suor Carmelina? Per parlare con suor Carmelina? Per sentire la voce di suor Carmelina?

— Forse.

Lui rise fortemente. Ella in quel momento passava e si volse. Le donne hanno questo di particolare che anche da lontano, con la coda dell’occhio, appurano quello che dite e se parlate di loro. Per un momento la sua veste scivolò lungo la fila dei letti, senza romore, senza toccarli, lambendo i larghi quadroni di marmo del pavimento. Un malato, il numero 34, un vecchio colono di Melito, si levò a sedere sul letto e si sberrettò, inchinandosi, mormorando qualcosa. La suora gli rispose con un piccolo moto del capo. Forse gli sorrise, ma le tese larghe della cornetta ]m’impedirono di vedere. A un posto della sala si chinò, raccolse la buccia d’un’arancia e per l’aperto finestrone la buttò giù nel cortile. Poi sparve.

— Sei contento? — mi disse l’amico. — Ora l’hai vista. Sei contento?

— E tu non ti commovi?

— Io! Ciò! vecio! Ne ho viste tante in mia vita! Io mi secco assai di dovermene stare qui inchiodato in questo letto, tra lamenti, spasimi, morti subitanee e morti lentissime, che non arrivano mai! Sono impregnato di acido fenico!

***

— Senti, vecio mio, — mi disse un altro giorno, — fra qualche giorno me ne vado. Ieri il dottore mi ha detto che ne ho per un’altra settimana. M’ha rifatta la gamba a nuovo. Che uomo, benedeto, che grande instituzione la chirurgia!

— E dici addio alla suora?

— Accidenti! Sei un bel seccatore tu, con la tua suor Carmelina! Guarda, ieri ella m’ha…. mi ha…. come si dice?

— Intenerito?

— Intenerito? M’ha fatto stomacare. È come tutte l’altre; sempre le stesse! Senti, io le ho annunziato che me ne andavo presto, fra una settimana, ch’ero bell’e guarito….

— E lei?

— Lei, al solito, s’è fatta rossa. Mi ha detto: Davvero? È proprio guarito? — Dico io: Sicuro. Cosa c’è? Le dispiace? — Ha fatto un muso! dice: Ecco, noialtre ci affezioniamo ai nostri malati così da volerceli tenere quanto più si può con noi. Ogni malato guarito si porta un po’ del nostro dispiacere…. — Immagina! Le volevo tirare un cuscino.

— Sei un grande cretino, va! Come tutti i commessi viaggiatori.

— Aspetta che guarisca, vecio mio!

***

Dopo una settimana egli era impiedi. Ma ancora zoppicava un poco. Per tre o quattro altri giorni era necessario che rimanesse allo spedale.

— Piglio aria, — mi disse. — E riprendo l’abito del camminare. Vien qua; ho qualcosa da narrarti su quella tale persona.

Ci mettemmo a sedere sotto un finestrone dal quale una gran luce pioveva nella sala. Erano le nove della mattina e lo spedale faceva la sua toeletta, pieno d’un gran chiacchierio che s’intrecciava fra i letti, arrivava con gl’inservienti, usciva dalla stanza delle suore, per l’uscio socchiuso. Una vecchia suora, inforcati gli occhiali, scriveva in un gran libro che s’era squadernato innanzi, sulla tavola.

— Ieri — cominciò il mio amico — al dopopranzo, suor Carmelina m’ha fatto presente d’una manata di confetti. Abbiamo chiacchierato a lungo; lo spedale s’era messo a dormire. — Dove se ne va, ora che è guarito? — Me ne vado a Venezia, — le ho risposto, — vado a rivedere mio papà e la mamma. — Beato lei, che ci ha tutti e due! — E lei? — Ha chiusi gli occhi, ha scosso tristemente il capo: — Non ho nessuno. — E come nessuno? Fratelli, sorelle? — Nessuno….. — Ti dico, caro mio, — soggiunse il mio amico, — sono stato preso da una grande pietà. Non ho saputo nulla rispondere, nulla dire a confortarla. Tutto ieri ella è rimasta in sala. A sera, per le finestre, entra un gran profumo di zagare, dal giardino. Ier sera se ne moriva; una cosa deliziosa, inebriante. Suor Carmelina passeggiava in lungo e in largo. Spuntava la luna, laggiù, dietro il comignolo della fabrica di steariche, guarda…. lì. Io mi son messo a canticchiare:

De Venezia lontan do mila mia

no passa dì che no me vegna a mente

el dolce nome de la patria mia,

el linguagio e i costumi de la zente….

E continuavo:

Soto el ponte de Rialto

fermaremo la barcheta,

O Venezia benedeta,

no te vogio più lassar….

Avessi veduto com’ella rallentava il passo, per sentire! A un tratto eccotela che mi s’accosta al letto, con le lacrime agli occhi, con la faccia bianca bianca, stravolta, la bocca tremante: — Lei non canti! — m’ha detto con malo modo, — qui non si canta! La prego di smettere! Questo è uno spedale! — Ciò, brava la ragazza! E cantavo roba del suo paese, cantavo!

— Eccola….

Ma appena la suora apparve in fondo alla sala un grido infantile risuonò, un grido che ci fece trasalire. Saliva un gran vocio dal cortile e gl’inservienti s’urtavano, accorrendo. Suor Carmelina scomparve.

— Che sarà?

— Qualche resezione di ginocchio, qualche incisione alla spalla, una disarticolazione, un bottone di fuoco che arrostisce la carne, ecco, questo sarà! Oramai trenta giorni di spedale mi hanno abituato a tutto questio…. Ne ho udito d’urli!… Un inferno, caro mio. Ciò! Che succede ora?

Qualche cosa di strano succedeva, infatti. Lo spedale era sossopra, la segreteria, attigua allo stanzone in cui noi ci trovavamo, s’empiva di gente. I malati si rizzavano a sedere sui letti.

— Andiamo a vedere! — disse il commesso viaggiatore, incamminandosi, zoppicante.

Era successo questo: il figliuolo del giardiniere, un bel ragazzetto biondo, era stato morso dal cane del guardiano. Il cane era idrofobo, palesava tutti i segni del male e lì per lì fu ammazzato. Ma il ragazzetto? Era perduto. Tutto questo lo sapemmo e lo vedemmo in un momento; un brivido ci corse per l’ossa e il coraggio di avvicinarci all’infelice ci mancò. Ma la gente si stringeva più intorno a suor Carmelina che da presso il ragazzetto. L’interno di guardia, un rosso dai piccoli occhi neri scintillanti, ci venne incontro, stropicciandosi le mani, gridandoci:

— Avete visto? Avete visto? — e soggiunse, entusiasmato: — Bellissimo! Stupendo! Magnifico!… Suor Carmelina ha succiato il veleno!…

La piccola suora era accorsa al grido del piccino, lo aveva trovato piangente, gli aveva chiesto che cosa fosse successo, e il piccino le aveva risposto:

— Mi ha morso il cane…

Subito dopo si sentì gridare:

— Badate! Badate! Il cane è idrofobo!

Il giardiniere gli aveva spaccato il cranio con un colpo di bastone. Ma il povero ragazzo mostrava il braccio nudo, sanguinante, e nessuno sapeva trovar modo di soccorrerlo. Allora suor Carmelina s’era avanzata, pallidissima, ma senza il più piccolo tremito. Aveva appressato alla ferita le labbra, e succhiato, lungamente, rigettando il sangue e il veleno, forbendosi le labbra bianche col suo gran moccichino scuro a quadroni. E allora tutta la sala numero quattro s’era posta a batter le mani, freneticamente. Il colono di Melito agitava il berrettino….