Dopo il processo, Perelà è stato ricondotto alla reggia, chiuso nel suo appartamento sorvegliato da quattro vigili, egli vi rimarrà per tutto il tempo necessario alla costruzione della sua tomba lassù sulla cima del monte Calleio.
Questo atto spontaneo del Re e del ministro, di riprenderlo sotto il tetto regale dopo la condanna, ha inasprito molto le maggioranze. La delicatezza colla quale si continua a trattarlo cade ora nel ridicolo.
— Perchè questa condotta così eccessivamente pietosa da parte del Re? Egli doveva essere trattato come tutti gli altri colpevoli, anzi, più duramente, molto più duramente! Quale colpevole non sa trovare una parola almeno per giustificare o solamente attenuare la propria colpa? Ebbene, questa parola quell’uomo non l’aveva trovata! Che diavolo gli si stava mai preparando lassù sulla cima di quel monte? Un qualche villino forse? Una comoda villeggiatura per l’estate prossima? La giustizia ha mostrato chiaramente fino all’ultimo il suo debole per costui. — Ecco le voci in corso. — I delinquenti si trattano come si deve, da delinquenti, quando mai si erano visti ricevere alla reggia i condannati a vita? E usargli mille premure come fossero dei principi del sangue? E quel povero Re che aveva corso i più grandi pericoli con questo malfattore in casa, ora continuava a tenerselo vicino come una mignatta! Gran baggiano anche lui! La bontà ha le sue barriere come ogni altra cosa, fuori di quelle è stupidaggine, è goffaggine, ridicolezza! Voleva dunque tendergli le braccia fino all’ultimo? Una prigione tutta per lui! O quella non era un’idea torta? Che esagerazione! Cosa diamine erano andati ad inventare? Sarebbe bella che d’ora in avanti per ognuno di questi cialtroni si dovesse fabbricare una villa sopra un luogo ameno a scelta! In poco tutte le nostre colline ne sarebbero seminate, e recandoci alle passeggiate domenicali noi avremmo per mèta questi buoni messeri! Oltre a godere aria buona essi si vedrebbero onorati da continui pellegrinaggi come il Santo Padre di Roma! Era forse la legge del progresso che portava quest’ultima invenzione per punire i tristi? — L’idea non mostrava che un lato apprezzabile: per andare dalla reggia a Porta Calleio, l’antica porta aveva ripreso il suo nome, il condannato doveva traversare la città intera, le vie principali di essa, e doveva traversarla a piedi, giacchè i condannati non si menano in vettura, ogni cittadino avrebbe potuto rivolgergli comodamente l’ultimo insulto, un lazzo ancora, uno sberleffo finale! E farsi giustizia da sè.
Si attendeva con trepidazione il momento.
Lo stambugio sulla cima del monte in poco più di due giorni fu pronto, e costruito colle pietre stesse del Calleio. Una cella di due metri per due metri, infossata giù nel terreno, alta circa tre sopra di esso, un orribile pozzo tenebroso. In basso, una porta piccolissima, foderata di lamiera, e tutta bardata di enormi chiodi nella parte superiore di essa, uno sportello di venti centimetri per venti tutto incorniciato di ferro, e incrociato da due sbarre, da quello il condannato doveva ricevere la luce e l’aria, e la legna se taluno glie ne avesse portata. Tugurio sì inesorabile non fu mai costruito per nessun colpevole. Guardandoci di fuori, per quello sportello, bisognava fare prima bene gli occhi all’oscurità, e cercare di non cuoprirlo che parzialmente colla propria faccia altrimenti non si vedeva più niente. Il recluso poteva tenerlo aperto o chiuso a piacimento, di dentro eravi infissa una lastra di ferro che scorreva su guide. La parete di fronte era tutta occupata dal camino che veniva in avanti più che a metà cella, sopra, sul tetto era la colonnetta dalla quale sarebbe uscito il fumo se mai quell’uomo avesse avuto legna da bruciare.
Il Calleio è la cima più alta delle colline che fanno corona alla città. È alto poco più di cinquecento metri. Le sue falde sono rivestite di belli alberi verdi e su fino a metà gli fanno mantello campi con bella simmetria coltivati. Ma dalla metà alla cima non v’è più nessuna vegetazione, la natura calcarea del suolo, l’aridità per il subitaneo sgrondare delle pioggie, impediscono qualunque coltivazione e non vi crescono che le piante dei terreni aridi, pietrosi, delle sabbie; esso finisce in un cumolo di rovine che scendono giù in torrenziale fuga di pietre e di terra.
Dalla via maestra si stacca un bel viale fiancheggiato da cipressi che sale fin dove il Calleio è verdeggiante, dopo, per giungere alla vetta bisogna seguire un sentiero appena tracciato che si avvolge a spire e si ritorce su su come un nastro, tortuosamente. Sopra la piccola spianata della cima è stata costruita la cisterna del condannato. Da lassù si domina bene la città ch’è giù a picco alle falde del monte; e si abbracciano in un solo colpo d’occhio tutti i suoi incantevoli dintorni.
Già dal mezzogiorno le vie del percorso sono animatissime, la piazza reale è zeppa fino alla scalinata chiusa dal cordone dei soldati perchè la folla non si inoltri alla porta della reggia. A tutte le finestre ferve grande agitazione. Le case sono ricolme di gente, amici, parenti conoscenze, tutti coloro che abitano fuori del percorso ma che hanno la fortuna di conoscervi qualcuno. Egli deve percorrere quella via del primo giorno quando solo e sconosciuto giunse in città, quella via ch’egli percorse trionfante la sera che il popolo lo acclamò come un sovrano.
L’ora stabilita è l’una dopo mezzogiorno, ma essa è già passata senza che si veda ancora niente. Le finestre della reggia sono chiuse.
Tutti, al solito, incominciano colle immancabili supposizioni. In queste circostanze si conta moltissimo sulla mezz’ora e magari ora di ritardo del personaggio atteso. Quell’attesa è tutto, è indispensabile per la buona riuscita, costituisce la solennità, l’importanza dell’avvenimento. Un Re sarà acclamato assai più, la gente non si vuole essere stancata per poco ad aspettare, e intanto tutti avranno avuto agio di cicalare, di montarsi, scaldarsi a vicenda per l’occasione. Un Re, un arcivescovo, un ministro, un personaggio qualunque che giungesse o passasse cinque minuti prima dell’ora stabilita sarebbe accolto con una generale freddezza, e tutti se lo vedrebbero sgattaiolare dinanzi come un uomo qualunque, pieno di occupazioni, che ha fretta, che vuol sbrigarsi, che guarda l’orologio lieto di essere qualche minuto in anticipo, senza nessuna solennità.
Nel caso nostro l’attesa aumenta, colla curiosità, l’odio per il condannato. Si incomincia a temere che il Re ne abbia fatta una delle sue, lo abbia fatto condurre lassù alla chetichella, di nottetempo, per sottrarlo al giusto sdegno della folla, al santo sdegno del popolo! — Certo, il Re vuol sottrarlo a questo impiccio e noi aspetteremo qui delle ore come tanti citrulli, e rimarremo di poi con due metri di naso! La debolezza del Re per quest’uomo è diventata favolosa! Favolosa! I ministri stessi lo stanno trattando con una dolcezza capace di far sortire dai gangheri i più pacifici! Sono a momenti le due….
Bdbun…. Bdbun…. Bdbun…. Bdbun bun bun. Bdbun…. Bdbun…. Bdbun bun bun…. Dan…. Dan… Dan…. Dan…. Dan… Dan…. Le sentinelle al portone della reggia si fanno indietro, escono i due primi tamburi che fanno fila a quattro metri di distanza l’uno dall’altro. Ecco Perelà, dietro altri due tamburi, che si inquadrano coi primi due. Il condannato, in mezzo, si avanza agilissimo, leggero, quasi saltellando ad ogni passo, mentre il corteo s’incammina pesantemente, lento, con cadenza funebre. Dietro vi sono quattro file di soldati col fucile a bilancia, a distanza di quattro passi una dall’altra.
Al rullo dei tamburi il corteo scende a passo cadenzato la grande scalinata; solamente Perelà sembra sollevarsi ad ogni scalino, come per spiccare il volo e farne il resto in un salto, tanto sono agili i suoi movimenti.
Dalle prigioni, in fondo alla città, la campana fende l’imbottito aereo coi suoi siluri di morte verso il condannato a vita.
La piazza della reggia è in un generale clamore, incominciano a partire, come razzi, le prime grida, le prime invettive, i primi fischi.
Il corteo ora è in piano e s’incammina per la via principale, i cui marciapiedi, le cui finestre così zeppate di teste sembrano quei grossi mazzi di rape o di barbebietole che gli ortolani tengono ammassate nei loro palchetti col capo in fuori. Alle finestre della reggia si intravedono muovere teste che spiano nascostamente dietro i vetri chiusi.
Il corteo è nella via intrecciata da grida, insulti, lazzi, come da stelle filanti, da una finestra viene giù un grosso sputo e cade ai piedi del condannato. Perelà non si volge, ma siccome l’esempio è imitato, i tamburi si fanno da parte sulle righe della folla cercando di allontanarsi tutti dal bersaglio più che sia possibile. Ecco un altro, un altro, un altro ancora, la gente incomincia a fuggire, i soldati si fanno sempre più indietro, Perelà rimane solo nel mezzo, immutabile sotto la grandinata di liquide frecce. — Ciò cià, sciù, crptù, crplah, crsciù — da tutte le parti piovono giù, taluni come fiocchi di neve, altri roteano in aria come piccoli manubri di mercurio lucenti, grigiastri, gialli, enormi che si vanno a squagliare in terra come chiare d’uovo…. tutti hanno smesso di gridare ed esprimono così il loro supremo disgusto.
Gli uomini che per tutte le cose della loro vita inventarono macchine e ordigni tanto complicati, quando vogliono esprimere a pieno il loro disprezzo, il loro sdegno, quando vogliono gettare in faccia ad un essere odiato l’insulto più atroce, buttano fuori quello che di più intimo custodisce la loro persona.
A Porta Calleio molta gente attende per seguire il gruppo, una vettura è ferma colle tendine calate. Passa Perelà in mezzo ai tamburi ritornati ai loro posti, la tendina di quella vettura si apre un poco, si scorge il bagliore di una faccia bianca.
I tamburi col loro rullo, le quattro file dei soldati, e parecchie centinaia di persone, dopo, una vettura nera celata ricoperta di sputi, cammina piano come dietro un corteo funebre.
Su su per la strada la massa di popolo si va facendo sempre più esigua, alcuni via via si fermano e tornano indietro.
Eccoci al principio del viale fiancheggiato dai cipressi che apre l’ascensione sul Calleio, dietro non ci sono più che un centinaio di persone e la vettura nera.
Siamo alla fine del viale dove incomincia il sentiero, la maggior parte della gente si ferma e rimane a guardare dal basso l’ascesa dell’ultimo tratto, la vettura si ferma, ne discende la marchesa Oliva Di Bellonda. Perelà, i soldati, un mannello di venti o trenta persone ancora, i più impenitenti curiosi, i più accaniti ingiuriatori che ora lo guardano lividi in silenzio con ghigno di disprezzo, e dietro la donna trascina il suo mantello nero sull’erta faticosa. Giù si vedono in fila, a naso ritto, quelli che sono rimasti.
Perelà è chiuso nella cella irreparabilmente.
I soldati, e il carceriere colla chiave fatale, tornano indietro e con loro ridiscende dopo un ultimo sguardo sdegnato, un ultimo tacito insulto, la gente, la donna che è rimasta sola in disparte, si avvicina alla prigione, piano piano la gira attorno per due volte, si ferma allo sportello e vi guarda lungamente. L’uomo è in piedi sotto la cappa del camino, alto, tranquillo — avrà freddo — ella pensa, — domani sera — guarda ancora, egli la guarda senza la forza di scambiare una parola, di aprire la bocca per articolare.
I soldati seguìti dalla gente camminano già sulla via, al principio la vettura nera attende. La donna incomincia con passo incerto affranto la discesa. Il sole è al tramonto, il disco sulla montagna difaccia sta come un’ostia infuocata, ostia pura di luce e di calore, e giù, giù per le rovine del Calleio il punto nero discende, dispare, ostia pura d’amore e di dolore.
Il sole scompare dietro il monte, la donna sale nella vettura, e i cavalli si muovono al trotto.
«Sono sotto questo camino e guardo su, in alto, il piccolo tondo azzurro, è il solo bene che mi è stato dato, esso mi appartiene. Ecco che in questo tramonto, io lascio le mie ultime volontà. I miei piedi sono uniti, e le scarpe posano come quella mattina quando faticosamente discesi fino ad esse, ed io le lascio qui, così…. come le avevano preparate loro. Pena! Rete! Lama! Voi mi daste queste scarpe perchè io camminassi sopra la terra non è vero? Forse io dovevo camminare fino a che non fossero tutte consumate? Se mi avessero sempre portato come oggi io potrei lasciare stasera un vecchio paio di scarpe rotte quaggiù, ma siccome sempre mi fecero camminare in splendide vetture, e vi fu chi si ebbe cura di ripulirle e lucidarle sempre, quasi avesse presentito che in fondo erano il mio solo bene terreno, esse sono ancora in buono stato, sono ancora belle, lucide, e il loro suolo non è punto consumato. È la sola cosa ch’io posseggo e ch’io vi possa lasciare, o uomini, esse mi legarono a voi, e più sarete ora persuasi che non valevo gran che, valevo questo paio di scarpe, eccole. Mi chiamaste coi nomi più belli, mi strisciaste i vostri inchini più profondi, mi adoraste come una reliquia, come un santo, poi vi siete accorti che cosa io valevo e mi avete disprezzato, calpestato come un rettile, ingiuriato, condannato come un assassino o un ladro, e mi voleste per sempre lontano da voi, per dimenticarvi, per sempre di me. Voleste tante cose da me, che io vi dettassi il Codice, eccolo, questo solo può essere il Codice di colui che vi piacque di chiamare Perelà, io ve lo lascio, esso manteneva sopra la terra la mia unica virtù. E in questo bel tramonto una piccola nube grigia in forma di uomo, le nubi hanno tante forme, volerà su su, traverserà lo spazio, l’orizzonte verso il sole, nessuno la scorgerà, forse una povera donna, che avrà per me un ultimo singhiozzo. A lei tutto il mio pensiero in questo istante, a lei che neppure potè capire quello che io ero solamente: leggero leggero leggero leggero».
Nell’uscire le gambe dalle scarpe cade a terra un piccolo disco roseo di cartone, la tessera, e l’ultimo sguardo dell’uomo sulla terra si posa sull’ultima sua parola «et ultra».
— Udite! Tutti! Venite qua! Correte! Qua…. con me! Vili! Vili tutti! Correte….
— La Marchesa Di Bellonda!
— La Marchesa di Bellonda!
— È impazzata!
— Udite! Lassù!… nella cella…. Perelà…. non c’è più! lo sono andata a portargli il fuoco per la notte, non c’è più…. la cella è vuota…. sotto il camino non ci sono più che le sue scarpe!…
— È fuggito!
— È fuggito!
— No! È volato!
— Dove?
— Come?
— Dove?
— Al cielo!
— Pazza!
— Pazza!
— Guardatela, impazzisce!
— Impazzisce!
— È pazza!
— Cani!
— Prendetela!
— Vili!
— Ha il delirio!
— Vigliacchi!
— Pigliatela!
— È pazza!
— È volato!
— È pazza!
— Seguitemi…. seguitemi tutti…. via…. andiamo via a uccidere…. a raccontare…. per uccidere…. bisogna uc….. Ah!…
— È pazza!
— È caduta pazza!
— È caduta pazza, pigliatela!
— No! Non vi avvicinate!… è caduta morta. Ha voluto troppo correre…. povera donna, le è scoppiato il cuore.