— Ma che bel bambino! Bello bello bello! Ce ne sono molti ve’ di belli quassù, ma questo è il più bello di tutti. — La giovine madre che teneva in collo il fanciullo sorrideva. — Ventotto mesi! Sembra di quattro anni! Davvero! Ma che bei ricci!… Ma gli occhi!… Gli occhi…. Vuoi venire con me?

— Vuoi andare con questa signora? Il bel ricciuto rise stringendo forte con tutte due le braccia il collo della madre. Le sue braccine grasse grasse facevano una profonda risega alla fine del polso, e le manine, fino alle dita, sembravano due guancialini. — Mah!… — La signora guardò suo marito presso a lei — Andiamo Narciso? — Il marito annuì col capo e un poco colla persona — Mah…. Addio bello!… Addio…. Buonasera.

— Buonasera signora.

Anche il marito salutò toccandosi con due dita la tesa del cappello.

Da un paio di mesi questa scenetta accadeva quasi ogni sera. I due signori, coniugi senza figli, il marito muoveva appena i primi passi nella cinquantina la moglie tirava via a far gli ultimi della quarantina, passavano da molti anni l’estate lassù a Vincignano, il delizioso paesello della Toscana verso il confine Umbro; affittavano sempre la stessa villetta, e la sera puntualmente al calare del sole salivano fino alla piazza del villaggio, si sedevano allo stesso tavolino del Caffè Nazionale, prendevano entrambi un bitter al seltz, e dopo mezz’ora se ne ritornavano a casa prima che fosse proprio buio. La giovine col fanciullo era la moglie di un contadino che abitava sulla via maestra a pochi passi dal paese. Quest’anno i coniugi facevano in più la fermatina per salutare il piccino; a quell’ora la donna era di solito sul cancello, quando non c’era aspettavano un po’, guardavano dentro, e se ne andavano molto a malincuore se non era stato loro possibile di vederlo. E lì: — Che bel bambino! Che begli occhi! Come questo non ce n’è! Non è vero Narciso? Ma che ricci…. Vuoi venire con me?… — E dall’altra parte: — Nossignora, sissignora…. ecc….

Ecco il primo germe di questa industria.

Una sera la signora disse scherzando: — Volete vendermi questo bambino? Voi potete farne subito uno più bello, io invece…. — La giovine madre sorrise. La sera dopo la frase fu ripetuta con minore accento scherzoso, la madre sorrise appena, la sera dopo ancora: — Ci avete pensato? — E la donna fu seccata di questo stupido discorso.

Parlando col marito disse dell’ammirazione che i due avevano per il piccino e disse che quella signora ripeteva ogni sera di volerlo comprare. — Sono cose che non si dicono neppure per ischerzo — concluse.

***

Era la fine di settembre, i coniugi lasciavano la campagna per tornarsene a Roma dove abitavano; quel giorno nella loro casa si concludeva solennemente un importantissimo affare: la proprietà di un certo Beppino di mesi ventinove passava a loro. Essi lo comperavano. Al tempo stesso firmavano in suo favore il loro testamento, lasciandolo erede di ogni loro bene. Pretendevano solamente, i nuovi genitori, che al nome di Beppino fosse anteposto quello di Cesare, nome troppo adorato e che custodivano intatto da quasi trent’anni.

I genitori di Beppino ebbero in compenso lire cinquemila. Fu sulle prime la moglie a volerle sborsare tutte lei, quasi riconoscesse, in quell’istante di felicità, tutto suo il torto nella infruttuosa unione e intendesse così pagarne la pena; e allora saltò fuori il marito che le voleva pagare tutte lui come convenendo allo stesso modo di essere lui solo il colpevole. Infine, dopo in lungo colloquio, decisero di mettere ognuno lire duemilacinquecento. Dovevano essere unite le due parti. — Così si fa, così debbono fare tutti, anche quelli che fanno i figli davvero.

***

Beppi…. pardon, Cesare, fu portato a Roma e non tardò a familiarizzarsi ed affezionarsi ai nuovi genitori. Chi sa mai quello che sarà passato per la sua testolina ma le condizioni del baratto erano così favorevoli ch’egli si trovò magnificamente nella capitale d’Italia dove lo avevano chiamato a regnare.

E quei coniugi, quella gente misurata e metodica, era diventata altra gente, gente nuova; avevano mandate al diavolo le abitudini ed erano tornati fanciulli. Non si occupavano più che di giuochi, di piccoli indumenti, di belle passeggiate al sole, corse sui prati…. tutta una vita rimasta in loro latente, ora si sviluppava, così tardi.

Si passavano l’oracolo dall’uno all’altro, ridevano, gridavano, correvano, gioivano…. spudoratamente; e quando la sera il piccolo chinava la testina dopo aver bevuto tutto il suo latte, se lo portavano a letto, e uno da un lato, uno dall’altro cooperavano a spogliarlo così addormentato e a metterlo presto sotto le coperte, eppoi lo baciavano, zeffirandogli appena le guance perchè non si destasse, assaporando il suo alito candido di latte. E lo guardavano ancora, e si guardavano incontrandosi in una frase lampante sebbene non espressa: — Quelle gioie potevamo averle provate da quasi trent’anni! Di chi la colpa? — Passava velocemente quest’ultima nuberella fra i due — Però…. però…. — diceva un ultimo sguardo pacificatore: chi sa se loro sarebbero riusciti ad averne uno tanto bello.

***

Prima che la vita di questi pseudo genitori fosse così totalmente cambiata, essi avevano a Roma due buoni, due cari amici, un’altra coppia di coniugi sulla cinquantina, come loro, come loro senza figli, non perchè gli fossero morti, ma perchè non erano mai riusciti ad averne, come loro: Pippo e Lavinia Tuzzo. I quattro si trovavano al pomeriggio per la passeggiata, alla sera per il caffè o il teatro, e in ogni luogo dove ci fosse da andare andavano insieme. Pagavano a metà la vettura, a metà il palchetto, pagavano a metà anche al caffè perchè le signore prendevano tutte e due il cappuccino, gli uomini tutti e due il caffè. Si facevano buona compagnia, si comprendevano a meraviglia, avevano le stesse abitudini, gli stessi gusti, i medesimi rimpianti. Andavano di sovente in quei giardini dove i bambini giuocano, e le mogli emettevano i medesimi sospiri, si lasciavano andare le stesse confidenze, le stesse piccole amarezze. I mariti dietro dietro, più severamente, facevano eco alle mogli. Quando si trovavano dinanzi ad una madre di numerosa prole, e magari orribilmente gonfia di un nuovo essere, le due donne guardavano la povera giovenca con grande ammirazione, la seguivano attonite. — In fondo era una donna in tutto e per tutto come loro, perchè doveva essere così beneficata? Che cosa aveva ella? Che cosa non avevano loro? — E quando i due mariti erano di fronte ad un mesto, preoccupatissimo padre di molti marmocchi, lo squadravano dalla cima dei capelli alle suola delle scarpe, quasi avessero voluto dire: — Che bel ragazzo! — Perchè ognuno di quei quattro riconosceva nel coniuge la colpa maggiore, ma in fondo erano tutti colpiti da quello del proprio sesso che si era così potentemente affermato. E questo sfregacciamento fra le due coppie serviva un po’ a riscaldare la gelida tana delle loro unioni infruttuose.

Quando Lavinia e Pippo Tuzzo andarono alla stazione a salutare i loro amici di ritorno dalla campagna, non si potè dire che la sorpresa che gli avevano preparata li mettesse di buon umore. Credettero prima ad uno scherzo, poi, vedendo che quelli non avevano punto aria di scherzare e si portavano a casa con grande premura il fanciullo, rimasero fra loro pensierosi.

Una barriera insormontabile veniva a dividere i vecchi amici, il tran tran della stessa vita non era assolutamente possibile riprenderlo. Le antiche abitudini se ne andarono tutte a capo fitto. I due non uscivano più la sera perchè non avrebbero mai eppoi mai affidato il piccino nelle mani della donna di servizio, uscivano invece presto la mattina, perchè Cesare abituato alla campagna doveva rimaner fuori più che fosse possibile: andavano per i viali, per le ville, col piccolo che si trascinava dietro un carretto, o un treno, un cavallo, dei palloni variopinti, si camminava secondo il volere di Cesare, si andava dove e come piaceva a lui, tutto era cambiato dalle fondamenta, non c’era più che una parola che valesse al mondo, un’idea, un nome: Cesare.

Lavinia e Pippo Tuzzo si mischiarono in principio a questa gioia, ma gli altri in fondo non ne godevano, non sapevano più che farsene, si capiva bene; rimanevano impacciati davanti a loro, non potevano godere più così spudoratamente come quando erano soli. — Siamo i nonni…. — dicevano: — Siamo…. come nonni…. — Ma lo dicevano male, si sentiva, per paura di essere corbellati, perchè loro non si sentivano nonni un corno, ma si sentivano il padre e la madre di quel fanciullo e niente altro.

Poi, il bimbo che diveniva sempre più festoso, sempre più sorridente, dispensava anche agli intrusi le sue grazie, e loro non volevano assolutamente essere così generosi da lasciargliele andare. — Eppoi…. eppoi infine…. — questo bambino è stato…. come trapiantato, avendo già cambiato i genitori una volta, se non ha sofferto nel mutamento è un vero miracolo, non è bene farlo accostare a troppa gente, se si vuole acclimatarlo bene al nuovo terreno.

— Certo certo — interloquiva il marito — naturalmente.

Le due amiche divennero fredde, e anche un poco insidiose, gli uomini, molto più sereni, riconobbero nella loro flemma che non era più possibile vivere insieme come prima.

Le visite furono diradate.

I coniugi senza figlio trovarono sul principio immensamente ridicola la condotta dei loro amici. — Per aver comperato un fanciullo erano divenuti due perfetti imbecilli. Alla loro età era anche molto pericoloso lasciarsi scorgere in pasto a simili debolezze. — Ma…. soli…. divennero malinconici, incominciarono fra loro i piccoli malumori…. piccoli malintesi…. dissensi fino allora sconosciuti…. per la prima volta si guardarono in cagnesco rimproverando l’uno all’altro la propria sventura. E un giorno poi scoppiò fra i due la vera guerra, due parole s’incontrarono come due micidiali siluri. Il marito lanciò dalla sua parte, con tutta la violenza di cui poteva disporre, questa parola: Sterile! — La moglie quest’altra: — Allentato! — E i due rimasero lungamente senza guardarsi.

Lavinia Tuzzo corse dalla vecchia amica e senza un ritegno più parlò della sua situazione, della solitudine, del dissidio col marito. — Mia cara, voi dovete fare precisamente quello che abbiamo fatto noi: prenderne uno, noi siamo felici! Pensate alla gioia di avere una di queste creaturine per la casa, sentirsi chiamare mamma, e avere una persona tanto carina alla quale volere tutto il nostro bene, alla quale dare tutto, tutto il nostro pensiero, lasciare quello che abbiamo. Volete anche voi lasciare il vostro denaro a dei lontani parenti che vi riderebbero dietro? Mia cara, io ti giuro che non v’è nulla di meglio al mondo che vedersi saltare sulla ginocchia uno di questi piccoli esseri. Queste creature prese così piccine sono come nostre, non v’è differenza alcuna, noi le educhiamo, le tiriamo su come vogliamo noi…. come un fiore. Voi dovete fare subito come noi: prenderne uno, scriverò io a Vincignano per informazioni, subito, non dubitate, dovete prenderne uno anche voi, di genitori sani, robusti, ben inteso, conosciuti, come abbiamo fatto noi, scriverò subito alla madre di Cesare io stessa….

La madre di Cesare non tardò la sua risposta. Ella era incinta già da quattro mesi, ma non avrebbe acconsentito mai a ripetere il suo fallo. Dopo la cessione di Beppino era stata molto male, si era sentita tanto sola che non vedeva il momento di avere messo alla luce un altro Beppino.

Fu replicato, ribattuto, i Tuzzo stavano per andare in persona a Vincignano quando giunse questa lettera:

«Illustrissima signora,

«Il mio uomo mi forza anche questa volta a fare lo sbaglio che io non vorrei fare, cioè di fare quello che feci con Beppino, io non volevo a tutti i modi ma lui ha voluto, se no dice che io sono una madre snaturata, dice che il Signore ci benedirà perchè leviamo i poveri alla miseria e mettiamo al mondo dei signori invece che dei tristi. Sia fatta la volontà di Dio e del mio uomo anche per questa volta. Dunque rimane fissato che appena io mi sono sgravata gli faccio il telegramma perchè loro vengono colla balia, perchè sento lo vogliano allattare da sè. Per il fissato del prezzo dice Nando non meno di diecimila perchè se no sarebbe troppo sagrifizio. Dice il mio uomo non credino che lui se li voglia mangiare questi soldi ma li asserba per una figliola quando verrà per farci la dote perchè anche lei sia una signora come i suoi fratelli e non una trista perchè se no ci potrebbe un giorno maledire. Dia per me un bacio a Beppino che sono tanto contenta che stia bene, e mi firmo sua umilissima serva Filumena e con più la saluto tanto anche da parte di Nando e saluti anche quegli altri signori e il suo consorte».

Quattro mesi dopo arrivò questo telegramma:

«Filomena sgravata felicemente di una bella bambina vengano pure colla balia. Nando».

Fu un disastro, un disastro! Una giornata orribile! I Tuzzo volevano il maschio e nasceva una bambina! Che cosa dovevano fare? Dovevano prenderla? I genitori, di solito, si rimettono nelle mani della sorte per questa faccenda, ma non era la stessa cosa; eppoi gli amici avevano avuto il maschio…. Infine loro erano genitori in condizioni tutt’affatto speciali, e potevano anche permettersi il lusso della scelta, avevano, è vero, impegnato il figlio, ma sicuri che fosse stato un maschio. Chi poteva pensare?… Saltò fuori una loro amica, vedova benestante, sola, quasi cinquantenne, decisa a non riprendere marito; ella avrebbe tanto volentieri rilevata una bambina per sua compagnia, purchè di buoni genitori, sani, e di indole mansueta. Fu stabilito di andare tutti assieme, la vedova e i Tuzzo, a Vincignano, e andarono.

La vedova pattuì per la bambina dietro compenso di lire quattromila non appena avesse compiuto l’anno e fosse slattata, e i due coniugi, ormai in fregola, e oramai a Vincignano, comprarono da due forti e bei genitori un magnifico maschio di tre anni giusti.

Non era compiuto l’anno dunque che a Vincignano erano stati venduti questi tre fanciulli.

Sembra che la voce circolasse rapidamente, per Roma e fuori di Roma; tutti parlavano di questi fanciulli. — I fanciulli di Vincignano! I fanciulli di Vincignano! — I fanciulli di Vincignano divennero celebri, argomento di tutte le conversazioni di quei coniugi senza figli. Molti andarono in persona e vi trovarono veramente una magnifica razza, e una gran quantità di genitori dispostissimi a cedere rampolli dietro compenso e alle condizioni suddette: che fosse fatta loro donazione di beni in vita o in morte, e che venisse loro assicurata una buona posizione.

L’anno seguente ne furono venduti nove, il terzo anno, ventidue, il quarto, sessantasette, il quinto, questo, ha avuto luogo in Vincignano, il primo mercato. Quei paesani, decisi a non vendere più la loro mercanzia alla spicciolata, stabilirono di tenerne una volta l’anno, in epoca da destinarsi, sulla piazza di Vincignano, un regolare mercato.

***

Una bella mattina di giugno il sole aveva riserbato nelle sue tasche per i colli toscani una speciale riserva d’oro, il piccolo gruppo di case sulla cima palpitava alla vivacità della luce e del calore. Vincignano, uno degli ultimi villaggi delle catene toscane verso l’Umbria, guardava giù i pendii verdi, arati di vigne, inargentati dai morbidi manti degli oliveti, cosparsi di cipressi, questi obelischi vivi della natura messi qua e là come puntelli nel divino paesaggio toscano, perchè tutto non si confonda in una divinità di luci e di colori davanti agli occhi dell’umile osservatore.

Dalle primissime ore del mattino il paese era tutto in movimento.

I fanciulli dovevano venire anche dalle vicinanze, purchè fossero venduti lì, a Vincignano, su quella piazza, dovevano avere questa marca di fabbrica «Vincignano».

Si erano installate lassù, già da vari giorni, coppie attempate, zitelle, zitelli, vedovi, facce più o meno arcigne che venivano incontro ad un torrente di gioia. I piccoli alberghi, le case, rigurgitavano. Un americano giungeva dall’America espressamente per comperare dodici fanciulli da portare in dono alla sua sterile sposa. Egli diceva di assicurare ai piccini un milione per ciascheduno. Due coniugi francesi dal muso d’uccello, volevano due maschietti colle gambe secche e dritte da introdurre come innesto per tentare la ripopolazione della Francia. Da ogni parte si domandavano informazioni e spiegazioni.

— I genitori! I genitori! — Bisognava vederli, farli visitare dal medico e accuratamente, bisognava essere certi della razza, al momento del mercato il medico avrebbe dato il responso.

— Io mi accontento del collo del padre. A me basta — diceva una secchina arricciando naso e bocca. — E i denti? I denti? — Incalzava un’altra colla faccia d’arancia e due occhi come grani di pepe — dove li mettete? Phue! — Il seno della madre! — Soffiava un grassone dalla faccia paonazza — È importante!

— I capelli! I capelli! I capelli! Non li contate voi? Non guarda ai capelli lei? È tutto. — Lasciava precipitare uno alto quasi due metri, secco secco, con un tubino grigio sotto al quale, nella cute bianca, nasceva una ghirlandina di lunghe setole giallicce.

Vincignano si popolava si popolava, si riempiva. Da tutti gli sbocchi apparivano sulla piazza donne che conducevano fanciulli, piccoli in fasce più grandicelli, se ne vedevano fino agli otto e ai dieci anni. Ce n’erano dall’espressione triste, malinconici o che piagnucolavano, altri in piena allegria e floridezza andavano incontro spensieratamente al loro destino. Alcuni, bambine in specie, parevano fiutare sottilmente una nuova vita di agi e di ricchezze. Erano tutti ben messi, i più piccini seminudi mostravano braccia e gambe paffute. Una madre ne teneva uno a gambe all’insù mostrandolo sotto come una meraviglia, infatti il piccolo agitandosi esponeva carni meravigliose di freschezza e di colore. Altre erano intente a ravviare capelli, soffiare per l’ultima volta un naso. Poi facevano passeggiare in bella mostra il loro prodotto mettendolo più in evidenza che fosse possibile. Un giovanotto ne prendeva uno e se lo portava sopra la testa, e il bimbo  brillava e rideva al giuoco. Chi ne trascinava uno a forza come al macello…. chi ammoniva con promesse esorbitanti, chi ne ricuopriva uno d’improperî, chi gli stringeva forte le dita per farlo star su, dritto, o perchè sorridesse ai signori che circolavano, e l’innocente faceva sempre più la faccia d’uggia. Intorno, sulle panchine della piazza, si vedevano madri che davano il latte alla loro creatura sfoggiando ai passanti una mammella portentosa.

E fra tutta questa gente circolavano i concorrenti. Le signore coi loro occhialetti giravano, cercavano, si chiamavano, accarezzavano, domandavano, tutti si rimescolavano oramai sulla piazza. Ve ne erano anche venuti in gita, per pura curiosità, e ridevano, e facevano mille meraviglie per la novità del caso. — Il Condotto! Il Condotto! — Fu gridato da una parte. Il medico corse all’appello e fu rinserrato da un aggruppamento istantaneo di persone.

Il mercato era aperto. Fu venduta per lire quattromila una bambina di quattro anni, bruna, la quale per il grande trambusto e per la soggezione del momento si diede a piangere dirottamente. Portata subito nel vicino caffè le furono presentati vasi di confetti e drops dinanzi ai quali la piccina ristagnò le lacrime, e accennava timidamente quali di quei dolci le convenivano di più.

Il mercato era aperto.

Si correva da destra a sinistra e tutti via via s’aggruppavano dove un affare si concludeva.

— Uh! Bellino!

— Che spalle!

— È vaccinato?

— Che occhi!

— Fategli aprir la bocca!

— Che dentini!

— Perle!

— Com’è tondo!

— Un tordo!

— Grasso! Grasso!

— Guardi qui!

— Qua! Su! Giù!

— Sciu! Scia! — Uno sculaccione e la vendita era fatta.

Chi portava via un fanciullo in collo di tutta corsa, coppie che ne tenevano uno in mezzo e camminavano chinati per guardarlo bene, non ancora capaci di stringerselo e di baciarlo. I due si guardavano in viso ancora una volta: — Avremo combinato bene? Sarà sano? Sarà buono? Mah! Speriamo! — Dissensi che saltavano fuori all’ultimo momento fra coniugi che si guardavano velenosamente prossimi ad acciuffarsi. I poveri fanciulli erano ormai intontiti, si portavano loro dolci, giuochi, si tiravano, si alzavano, si spogliavano, si rivestivano, si stringevano in quel fracasso d’inferno.

L’americano ne aveva già comperati quattro per un complessivo di lire venticinquemila — Cento! Cento! — Gridava correndo in cerca di nuovi soggetti, sodisfattissimo della razza.

I due francesi se ne tiravano uno per la mano in cerca disperata dell’altro da portare come innesto per la ripopolazione della Francia. I ragazzi andavano a ruba. Alle undici non ce n’era più uno disponibile. Alcuni genitori si decisero sul momento a venderne uno, vista l’affluenza sul mercato.

Si gridò a più riprese: — C’è più nessun fanciullo in vendita? Nessuno, il mercato era finito, la piazza si spopolava; tutti correvano a fare i passi necessari per l’acquisto della proprietà, interrogavano i genitori sulle abitudini sui gusti. Il Condotto era strappato da tutte le parti, tutti se lo contendevano.

Nella piazza tornata in calma, la gente sedeva sulle panchine commentando, discutendo delle vendite, pro e contro la nuova industria.

Una piccola zitella di una cinquantina d’anni girellava delusa. Era venuta anche lei per comprare ma non si era fatta avanti, troppa confusione, eppoi i prezzi enormi…. non ne erano stati venduti a meno di tremila lire. Lei infine non poteva promettere che una posizione modesta, aveva da vivere appena comodamente. Si fermò vicino ad una panca, vi sedeva una donna grassa di mezza età, al suo fianco, quasi nascosto, nel cavo della sua vita, un piccolo essere, un bambino secco, gracile, vestito con calzoncini e giacchetta di grossa roba di lana, un lungo mento e un berretto da marinaio che gli calzava fino sugli occhi.

— Questo? — disse la zitella soffermandosi — è vostro?

— Sì — rispose la donna.

— Non lo volevate vendere?

— L’ho portato solamente per provare. Più degli altri avrebbe avuto bisogno di essere venduto ma…. io non ho voluto esporlo, avrebbero forse riso, lo avrebbero schernito poverino, è un infelice. — E alzandolo su lo mostrò in piedi. — Era gobbo, mostruosamente gobbo. — È nato così. Oh! Avrebbe bisogno lui di trovare protezione, noi siamo dei poveri contadini, e in casa c’è pane solo per chi può lavorare, lui forse non potrà….

La donna parlava profondamente amareggiata, aveva vedute vendere tante belle teste ricciute, andare incontro agli agi, alle ricchezze, aveva veduti i loro genitori riscuotere sacchetti d’oro…. — Qui vengono solo a cercare i belli e i sani…. —

La zitella accarezzava il fanciullo teneramente. La madre la guardò in maniera espressiva, le due donne si capirono.

— Mah!… — disse la zitella — poverino…. io cercavo una bambina….

— Ma glie lo darei per poco, è buono sa, tanto buono, si affeziona, e non si staccherebbe mai da una persona quando gli vuol vene.

— Ma io cercavo una bambina…. — Intanto qualcosa di fossilizzato a quel calore si disfaceva in lei e le veniva dolcemente agli occhi, alla bocca alle mani al cuore…. ad inondarla tutta: la sua maternità. L’amore per l’essere infelice, la cura per il meschino, la dedizione pietosa…. tutto un poema di tenerezza e di amore ella intravedeva. Oh! essere madre di belle e sane creature non era così grande come essere madre di un infelice.

— Glie lo darei anche per cinquecento lire — incalzò la donna.

La zitella sentì di doverselo stringere al seno; lo prese, lo circondò, lo baciò, lo strinse. La creatura dalla bazza puntuta la baciò nella bocca viscidamente, un bacio malato, ma dal quale si travasavano gocce della sua povera anima molle.

A questo punto viene su dal fondo della piazza un nuvolo di persone. È l’americano che sbraita inseguito da gente che ride sorride sghignazza….

— Empossibole! Empossibole!

Non era riuscito che a comperare otto fanciulli, e non avrebbe lasciata l’Italia senza i dodici da portare alla consorte. Ne cercava ora da comperare di seconda mano, a qualunque prezzo, a qualunque condizione. Giunto alla cima della piazza, scorta la zitella che abbracciava il piccolo infelice si avvicinò.

— Questo? Questo?

— È infelice signore — disse la madre.

— Non emporta.

— È gobbo.

— Non emporta.

— Questa signora lo prenderebbe….

— Quanto dare?

— Cinquecento lire — balbettò timidamente la zitella lasciando il fanciullo.

— Mille — disse l’americano.

La zitella còlta da uno scatto di rabbia per la spavalderia di quel tipo disse secco secco:

— Millecinquanta.

— Millecinquecento!

— Milleseicento — ritossì la zitella.

— Duemila.

La piccola zitella tremava di rabbia, era divenuta livida, guardava la madre saettandola, facendole gesti, segni cogli occhi, ma essa non guardava più che l’americano, esterrefatta per il sopraggiungere così inatteso della fortuna.

Un bell’umore del gruppo gettò un grido:

— Cinquemila lire!

— Diecimila! — Gridò l’americano.

— Ventimila! — Venne ancora fuori dal gruppo aizzato al giuoco.

— Un gobbo! Un gobbo! — Dicevano tutti — Mamma mia! — E ridevano e gridavano….

— Trentamila! — Urlò l’americano senza neppure voltarsi.

— Ma un gobbo!

— Gesù mio!

— Porta fortuna!

— È la fortuna! — Fu gridato in vari punti della piazza.

— Porta fortuna!

— Quarantamila!

— Cinquantamila!

La madre divenuta pazza, furente, assalita da un fremito febbrile, salita sulla panca col povero infelice in braccio, e mentre la piazza rumoreggiava ancora una volta affollata, mentre tutti gridavano, ridevano sconciamente, incominciò a togliere le vesti di dosso al fanciullo e a lanciarle via alzandolo nudo sopra là sua testa, gridando da forsennata:

— Guardatelo! È vero! È vero! È reale! — pazza, lanciando il figlio nudo verso il sole! Le due curve mostruose di quel povero torace rilucevano ai raggi.

— Centomila! — tuonò l’americano sorpassando ogni rumore, girandosi paonazzo verso la folla in atto di sfida.

La piazza rimase muta d’un colpo.

***

Non è vero che questa industria è straordinaria? Ma il più straordinario è questo: che il nostro buon Giolitti non abbia ancora pensato di farne un monopolio dello Stato.