I.

Posto sul pendio d’un’amena collina che monti più alti difendono dai venti di settentrione, ricco d’acque sorgive che abbeverano tutto l’anno le belle praterie circostanti, il paese di Sant’Angelo dei Pastori godeva sino a poco tempo addietro la fama invidiabile d’esser uno dei luoghi d’Italia ove le malattie sono più rare ed è minore la mortalità. Non è quindi da maravigliarsi che il vecchio albergo ed il nuovo fossero ogni autunno pieni di forestieri e che vi si fabbricassero ville e chalets a cui non mancavano mai gl’inquilini.

Nè Sant’Angelo dei Pastori si vantava soltanto del suo clima, della sua posizione, delle sue acque e della sua salubrità; esso andava superbo altresì del suo segretario municipale, signor Geronimi, che sostituiva il sindaco sempre assente, del suo parroco don Prospero, affabile, gioviale, gran giuocatore di bocce, e del suo farmacista Saverio Dorini, detto il Mago.

Anzi, per esser sinceri, il signor Dorini era tenuto anche in maggior conto del segretario e del parroco. La sua farmacia all’insegna del Leone e della Giraffa alla quale la gente veniva a provvedersi di medicinali da quindici, da venti miglia di distanza, era considerata una gloria locale. E quella farmacia non poteva scindersi dalla persona del suo proprietario e conduttore, che l’aveva portata a così alta riputazione con la sua opera sagace e indefessa.

I confratelli invidiosi schizzavano veleno contro il signor Saverio, mettevano in canzonatura il suo soprabito scuro che gli scendeva fino alle calcagna ed era chiuso fino al collo, le sue scarpe di panno, il suo berretto di velluto col fiocco di seta, la sua faccia macilenta e legnosa ove brillavano due occhietti che parevano fatti col succhiello; e, quasi ciò non bastasse, malignavano sulla sua aria di mistero, sulla sua vita solitaria, sul suo gatto Masaniello dal pelo nerissimo, dagli occhi lucenti come due monete d’oro, gettavano sospetti sulla sincerità dei suoi prodotti farmaceutici, cercavano nuocergli presso i contadini ignoranti chiamandolo il Mago. E l’epiteto aveva fatto fortuna; ma, volutogli dare dai rivali con un significato ingiurioso, era rimasto aggiunto al suo nome come un titolo nobiliare per merito de’ suoi compaesani. Un mago sì, un mago benefico che aveva saputo arricchire giovando agli altri, che non si concedeva riposo nè di giorno nè di notte, e che attendendo quasi solo ai suoi negozi non aveva mai commesso una svista.

Del loro affetto per questa fenice dei farmacisti, gli abitanti di Sant’Angelo dei Pastori diedero una prova solenne tre anni or sono, quand’egli, ridotto in fin di vita da una fiera malattia, superò insperatamente la prova. Vi fu allora persino chi propose di erigergli addirittura un piccolo ricordo marmoreo, come fece la Repubblica di Venezia al doge Francesco Morosini, adhuc viventi. L’idea fu abbandonata per desiderio espresso del modesto signor Dorini che ne aveva avuto sentore, ma intanto s’era potuta raccogliere in cinque giorni la somma di undici lire e venticinque centesimi, erogate subito in opere di pubblica beneficenza.

 

II.

È però un caso singolare. Appunto da circa tre anni, le cose di Sant’Angelo dei Pastori non vanno più come una volta. Il paese, sfido io, non ha mutato nè situazione, nè clima, e le sue acque continuano a scorrere limpide, pure, abbondanti; il signor Geronimi è sempre il factotum del Comune, gli stessi due medici si dividono la clientela, don Prospero regge sempre la parrocchia, il signor Saverio Dorini, detto il Mago, siede sempre dietro il banco della sua farmacia sulla cui insegna dipinta a nuovo il fiero leone dalla lunga criniera e la mite giraffa dal lunghissimo collo seguitano a guardarsi in patetico. E, fino a ieri, il gatto Masaniello, tacito e grave, compiva le solite evoluzioni fra i boccali e sugli orli delle scansie, o si accosciava sulla soglia in atteggiamento di Sfinge.

Ma il signor Geronimi, uomo versato negli studi statistici, ha notato un piccolo aumento nella media della mortalità a Sant’Angelo dei Pastori, e questo fatto unito ad un altro che cade sotto gli occhi di tutti desta le sue ansietà patriottiche. L’altro fatto è questo: il farmacista ed il parroco hanno cambiato umore e abitudini. Sarà discutibile se abbiano cambiato in meglio od in peggio; il cambiamento è sicuro. Il signor Dorini, il quale prima d’ammalarsi non andava in chiesa che nelle feste solenni, adesso mostra uno straordinario fervor religioso e si confessa ogni mese. Bisogna dire però che la fede non gli dia la pace dell’animo, perchè è turbato, inquieto, come se un pensiero molesto lo crucci. Nè passa più due o tre ore ogni notte chiuso nel suo laboratorio con l’unica compagnia del suo gatto; lo si vede invece, in quell’ore, girar solo nell’orto, con la testa china sul petto e le mani dietro la schiena, lasciando che Masaniello, privo delle usate occupazioni, si dedichi sfacciatamente al libertinaggio, corra sui tetti, penetri nelle case altrui e spaventi le oneste famiglie col miagolio petulante e il luccicar delle gialle pupille. Don Prospero, dal canto suo, già così gaio e socievole, sfugge le allegre brigate, gioca di rado alle boccie, ed è sovente nervoso e irascibile, sopratutto dopo i suoi colloqui spirituali con l’amico Saverio. E sì che per un ministro del Signore non dovrebb’esser piccola soddisfazione l’aver ricondotto all’ovile una pecorella smarrita.

Povero don Prospero! Non vorremmo calunniare un degno ecclesiastico, ma abbiamo forti ragioni per credere ch’egli dica spesso in cuor suo: — Benedetto uomo quel Saverio! Dal momento ch’egli era giunto sulla soglia del Paradiso, che ghiribizzo gli è saltato di far frontindietro e di rimanere in questo brutto mondacccio ove rischia di compromettere di nuovo la salute dell’anima sua?

Ah, il giorno della confessione di Saverio Dorini (della prima) era stato un dì memorabile pel parroco di Sant’Angelo dei Pastori. Con zelo d’apostolo egli era accorso al letto del moribondo, con mansuetudine di santo ne aveva ascoltato le rivelazioni inattese, con gaudio di sincero credente ne aveva accolto il pentimento e gli aveva concessa l’assoluzione. Quindi ai curiosi che affollati intorno alla farmacia tentavano strappargli qualche indiscrezione egli s’era contentato di dire: — Fa una gran bella morte…. Una morte da vero cristiano.

— Non poteva essere altrimenti, — qualcheduno aveva soggiunto. — Dopo una così bella vita!

Senza rispondere, don Prospero s’era ritirato frettolosamente in canonica, ove alla serva Cesira che lo tempestava di domande aveva ripetuto l’identica dichiarazione: — Fa una gran bella morte.

Ma la sera, tornando dal Mago, l’aveva trovato in condizioni molto migliori; la mattina il medico era venuto in persona ad annunziargli, che, secondo lui, il signor Saverio era fuori di pericolo.

— Diamine, diamine! — aveva borbottato fra i denti il buon prete.

 

III.

Tutti i particolari di quella confessione erano stampati in caratteri indelebili nella memoria di don Prospero a cominciar dalla fuga precipitosa del gatto Masaniello che, sguisciando dalla camera del malato in un accesso di folle terrore, gli si era impigliato nella tonaca e fra le gambe. C’erano momenti in cui egli sarebbe stato in grado di ripetere parola per parola le cose dettegli dal farmacista, e di aggiungervi l’esclamazioni che la sorpresa gli aveva strappato dal labbro, le interruzioni, l’esortazioni che aveva fatto. Gli bastava chiuder gli occhi per rievocare la scena.

Ecco, dopo liberatosi la coscienza di alcuni peccatucci minori, il signor Saverio si alzava faticosamente sul gomito, e tirando un sospirone principiava: — Ella sa, caro don Prospero, di quanta stima io godessi come farmacista….

A cui egli, il sacerdote: — Stima meritatissima, figliuolo. Ma non conviene esaltarsi.

— Eh si tratta di ben altro che di esaltarsi…. Se su cento medicinali esistenti nel mio laboratorio ce n’eran dieci di genuini è già molto…. L’olio di ricino, la cassia in canna, la polpa di tamarindo, non dico…. Ma il resto! Pillole, acque minerali….

Qui a don Prospero era scappata una frase di cui egli si pentiva amaramente, come di quella che tradiva una preoccupazione affatto personale: — Anche le acque minerali!

Don Prospero faceva ogni estate la cura delle acque di San Pellegrino.

— Le acque minerali sopratutto, — continuava l’infermo…. Però in modo da non recar danno alla salute….

— Meno male…. Avanti, avanti, figliuolo.

— Ah, da questo lato non ho rimorsi…. Delle disgrazie non ne son successe per causa mia…. Forse col mio sistema se ne sono evitate…. Si ricorda, don Prospero, quel giovine tedesco che anni sono, mentr’io ero fuori di paese, era riuscito a procurarsi dal mio garzone una fortissima dose di laudano ch’egli ingoiò tutta d’un colpo credendo di morire? Invece egli se la cavò con una dormita di ventiquattr’ore…. Mi son sempre servito di sostanze innocue…. Per i medicamenti liquidi, dell’acqua del mio pozzo, ch’è la migliore del paese…. Avevo un buon assortimento di bottiglie, di etichette, di tappi e facevo da me tutto il lavoro…. Per esempio da una bottiglia d’acqua di Vichy ne venivano tre…. Per le polveri, per le pillole, c’era la farina finissima, la gomma arabica….

A questo punto il signor Saverio s’era sentito mancar le forze e aveva lasciato ricader la testa sul capezzale.

— Basta, figliuolo, basta, — aveva detto don Prospero. — Non vi affaticate, non vi agitate…. Senza dubbio il peccato è grande. Avete ingannato la buona fede del pubblico…. vi siete arricchito illecitamente.

— Ho fatto molte carità, — sussurrò il farmacista con un filo di voce.

— Non sono carità buone quelle che si fanno coi danari carpiti agli altri…. A ogni modo, voi riconoscete il vostro torto?.

Il malato accennò di sì col capo.

— La misericordia di Dio è infinita e non manca mai a chi si pente con sincerità ed effusione di cuore. Vi pentite, figliuolo?

— Sì, sì.

Docile, ubbidiente, il signor Saverio, col poco fiato che gli rimaneva, compì il suo atto di contrizione, ripetè con fervore le preghiere recitate dal sacerdote, promise, se il cielo gli accordava ancora qualche anno di vita (non lo sperava, ma al Signore nulla è impossibile) promise di condurre d’allora innanzi la farmacia secondo le norme della più rigorosa onestà, di frequentare le funzioni di chiesa, di osservare il magro e i digiuni, di ristaurare a sue spese il campanile e di andare nel settembre in pellegrinaggio alla Madonna di Monte Balestro. Tutte cose che spiegavano l’affermazione enfatica di don Prospero: — Fa una gran bella morte.

 

IV.

Appena guarito, il signor Saverio Dorini portò al parroco un acconto della somma necessaria pei lavori del campanile, vi aggiunse un’offerta per i poveri, e s’intrattenne lungamente di soggetti religiosi, mostrando tutto lo zelo d’un neofita.

— Bravo, bravo, figliuolo, — diceva don Prospero. — Mi avete dato una delle maggiori consolazioni della mia vita…. Ma intendiamoci, veh…. Voi dovete mantenere il vostro impegno circa alla farmacia…. Non più sotterfugi, non più falsificazioni…. Prodotti genuini, e nient’altro.

— Si figuri, don Prospero…. E poi non verrò da lei ogni mese?…. Non le racconterò tutto…. in confessione?

— Anche fuori di confessione…. quando volete…. nel mio orto, a tu per tu, con un buon bicchiere di vino davanti.

— No, no, son temi delicati…. E mi raccomando, per carità…. Di quello che ha saputo….

— Mi meraviglio! — interruppe don Prospero, scandalizzato del dubbio ingiurioso.

Pei primi tempi le cose andarono a gonfie vele, e il farmacista ebbe persino l’eroismo di distruggere con le sue mani alcuni vecchi medicinali adulterati per non cedere alla tentazione di rimetterli in vendita.

— È proprio un sant’uomo, — pensò don Prospero il giorno in cui ricevette questa confidenza sbalorditiva.

Era anche l’opinione delle donnicciuole del paese, le quali, quando videro il Mago accompagnarsi a loro per andare a piedi, secondo il voto ch’egli aveva fatto, in pellegrinaggio alla Madonna di Monte Balestro, ruppero in esclamazioni ammirative e vollero una per una baciargli il lembo del vestito.

Naturalmente, fra gli spiriti forti, vi furono scrollatine di spalle e allusioni sarcastiche. E ch’erano ostentazioni bell’e buone, e che i farmacisti devono attendere al loro mestiere e non fare i collitorti, e che certo il signor Saverio aveva dei gran peccati sull’anima se provava il bisogno di bazzicare tanto in chiesa.

E c’erano gl’indiscreti che tastavano il parroco. — Ah, don Prospero, chi sa che orrori avrà sentito da quel signor Saverio! Se potesse parlare!

— Zitti là, scomunicati! Quel Saverio è un sant’uomo.

Don Prospero diceva così, forse convinto, forse no.

E presto il sant’uomo cominciò a dargli non poche tribolazioni.

Veniva al confessionale, s’accusava di parziali ricadute negli antichi errori. Rispettava i medicamenti solidi; gli accadeva talvolta, per distrazione, di allungare i liquidi.

— In nome di Dio benedetto! — esclamava il sacerdote. — Non torniamo da capo.

— Che vuole? Con tutte quelle bottiglie, quelle etichette, quei tappi che mi son rimasti in magazzino, con quel pozzo eccellente che ho sotto le mani, è uno scongiuro….

— E voi distruggete le vostre bottiglie, le vostre etichette, i vostri tappi…. Avete pur fatto qualcosa di simile in passato.

— Delle scatole di pillole, delle cartoline di polveri son presto distrutte…. Ma quella roba voluminosa….

— Vendetela quella roba…. o regalatela.

— Oh sì…. Sarebbe il modo di svegliare i sospetti.

— Chiudete il pozzo allora.

— E per gli usi domestici?

— C’è tanta acqua in paese.

— No, don Prospero, le giuro che d’ora in poi starò in guardia. M’imponga che penitenza crede, ma mi assolva per oggi…. Vedrà, vedrà.

Don Prospero si lasciava commovere, imponeva la penitenza e rimandava assolto il peccatore.

Una volta però egli fu irremovibile. Il Mago aveva avuto l’impudenza di proporgli una specie di compromesso. Avrebbe limitate le sue manipolazioni a certe acque, astenendosi scrupolosamente dal toccar le altre…. quelle di San Pellegrino, per esempio.

L’onesto sacerdote scattò. — Ma questo è un ricatto. E avete il coraggio di tenermi un discorso di questa specie, in confessione? Profanatore! Via, via subito.

E poichè il signor Saverio s’indugiava, biascicava delle scuse, don Prospero lo piantò in asso.

La lezione servì, e successe un periodo nel quale il nostro farmacista non sgarrò d’un punto.

— Nessuna miscela, nessuna sofisticazione? — chiedeva il parroco.

— Nessuna.

— Proprio?

— Che il Signore mi punisca qui all’istante se dico una bugia.

— Bravo, amico mio. Perseverate.

Ma una mattina, dopo che nella settimana c’erano stati due funerali in paese, Dorini si presentò turbatissimo al suo confessore. — Caro don Prospero, io ho una gran paura che volendo far il bene noi facciamo il male.

— Cosa c’è? Che fisime son queste? Spiegatevi.

— Ha visto di quei poveri Giorgetti e Silanda?

— Son morti, pur troppo…. Me ne dispiace perch’erano due buoni diavoli, due padri di famiglia…. Meno male che avevano qualche po’ di terra e i figliuoli non restan nella miseria…. Insomma, pulvis sumus.

— Ebbene, avevano l’identica malattia e son stati curati con gl’identici rimedi, arsenico e noce vomica, che quattr’anni fa si son somministrati al gastaldo del conte Ferro e a Gigi Bonai, il maniscalco, i quali son guariti tutti e due e adesso stanno meglio di noi.

— Oh bella, si sa, con la stessa malattia, con la stessa cura chi guarisce e chi no.

— Sissignore; però, quattr’anni fa, quei veleni, perchè sono veleni, uscivano in ben altra forma dalla mia farmacia. Un bambino avrebbe potuto prenderne qualunque dose senz’accorgersene. Ora sono genuini, e ammazzano.

— Ammazzano, ammazzano? I medici sapranno il loro mestiere.

— Sarà: per me son convinto che s’io non cambiavo sistema quei due disgraziati campavano.

— Che vorreste concludere?

— Niente. Lei fa il suo dovere a ordinarmi quello che mi ordina, io faccio il mio a ubbidirle. Ma roviniamo il paese. Anche iersera, in farmacia, il segretario Geronimi e il dottor Cianchi dicevano che la salute pubblica è peggiorata, che i forestieri cominciano ad essere in sospetto e che da due autunni si notano delle diserzioni.

 

V.

Don Prospero rimase con questa spina nel cuore. Gli pareva assurdo, gli pareva immorale il pensare che la maggior lealtà d’un farmacista dovesse aver per effetto un peggioramento nella salute pubblica; tuttavia, se in qualche punto Dorini avesse ragione, se l’abuso dei rimedi fosse fatale e se il render innocui questi rimedi fosse un correttivo della mala tendenza dei medici a esagerare nelle ricette? Un gran problema. A ogni modo, poteva egli permettere, tollerare le frodi? Al penitente che si accusava d’ingannare la propria clientela poteva egli dire — Continuate? — Poteva cader nell’agguato che forse Dorini gli tendeva, e, con le sue compiacenze, legittimar dei guadagni illeciti?

E il guaio si era che quel furbo del Mago non si lasciava sfuggir una sillaba sull’argomento fuori di confessione, e imponeva quindi a don Prospero il più scrupoloso segreto, sotto pena di sacrilegio.

Si tirava avanti così. Con l’usata regolarità Saverio Dorini veniva a fare il suo atto di contrizione ed era rimandato ora assolto ora no, perchè se il farmacista aveva abbandonato le falsificazioni su larga scala, ricascava ogni tanto nelle piccole. Comunque sia, egli accettava con mansuetudine le penitenze che gli erano inflitte, ma di tratto in tratto tornava volentieri sulla sua teoria di medicinali semplificati, e citava casi, anche recenti, di malati gravi ch’eran guariti prendendo poco più che dell’acqua fresca o della farina schietta mentre credevano di prendere o l’antipirina, o il calomelano, o l’aconito, o qualche pasticcio simile.

Un giorno don Prospero commise un’insigne debolezza.

— Sentite un po’, caro Saverio. Con quelle che chiamate semplificazioni voi otterrete una gran riduzione sul costo….

— Oh Dio, non dico di no.

— E vendete ai prezzi degli altri?

— È necessario, per non rovinare il mestiere.

— Ecco, se tutto quello che risparmiate, fino all’ultimo soldo, lo deste ai poveri, chi sa ch’io non fossi più corrivo?

Ma Dorini protestò. Del danaro in carità ne spendeva già molto; non poteva esporsi al rischio di passare per dissipatore e di perdere il credito di cui ogni industriale ha bisogno.

Il rifiuto del farmacista fu una fortuna per don Prospero che s’era accorto immediatamente di aver messo il piede in fallo e sarebbe stato in un bell’impiccio se il Mago avesse accondisceso a stringere il contratto. Anzi, riflettendoci, egli temette d’esser caduto in peccato mortale pel solo fatto della proposta.

E a pranzo non toccò quasi cibo, tanto aveva la coscienza angustiata.

La serva Cesira, che da un pezzo lo vedeva così diverso da quello d’un tempo, uscì allora in queste gravi parole:

— Lo so io che cosa c’è di guasto in paese.

— Eh? — fece il parroco.

— C’è il diavolo, — affermò la donna con serietà imperturbabile.

Don Prospero trasalì. Era figlio di contadini, e nonostante il suo naturale buon senso non era mai riuscito a liberarsi interamente dai pregiudizi ereditari.

Pur volle fare il disinvolto. — Sciocchezze!

— C’è il diavolo, — ripetè la serva. — E son parecchi anni che c’è.

— Finiamola! — disse don Prospero nella vaga apprensione di sentir accusar il suo penitente Dorini. E soggiunse ironico: — Son parecchi anni che c’è, e aspettate adesso ad avvisarmene?

Con l’ostinazione delle sue pari, la femmina riprese: — Finchè il Mago se lo teneva con sè la notte, fin che lavoravano insieme, non dava disturbo a nessuno, e forse la farmacia andava meglio. Ora il Mago è rientrato in grazia di Dio e quello si sbizzarrisce a spese dei cristiani.

Il parroco era in preda a un indistinto malessere. Quello? chi era quello? Chi era il misterioso collaboratore di Dorini?

— Alle corte, spiegatevi. Chi è questo signor diavolo?

— Come non se lo immagina? È il gatto Masaniello che anche questa notte è venuto nel nostro orto a rubare una gallina.

Don Prospero avrebbe voluto ridere, ma non poteva. Senza dubbio erano minchionerie; nondimeno egli si ricordava di certe storie udite nell’infanzia, secondo le quali il demonio non isdegnava di vestir la forma di qualche animale domestico per sorprendere la buona fede delle famiglie.

— Provi a esorcizzarlo, — suggerì la Cesira.

— Un gatto?

La serva si meravigliò dell’obbiezione. Nel suo villaggio, da bimba, ell’aveva visto esorcizzare una capra.

— Basta, — disse don Prospero, alzandosi in piedi. — Tronchiamo questo discorso. — La Cesira uscì proferendo minaccie incomprensibili.

Dopo una notte insonne, don Prospero prese una risoluzione energica e partì all’alba pel capoluogo ove chiese ed ottenne un’udienza dal vescovo della diocesi. Allorchè, ventiquattr’ore più tardi, egli rientrava in canonica meditando su gli aurei consigli del venerabile prelato, gli si affacciò sulla soglia la Cesira, nell’atteggiamento di Giuditta reduce dal campo nemico. Anch’ella aveva ucciso il suo Oloferne, e ne teneva la spoglia esanime, sospesa…. per la coda.

— Masaniello! — esclamò il parroco.

— Gli ho teso un laccio e l’ho strozzato, — disse la donna con magniloquente brevità.

Indi, gettando la fredda salma lungi da sè, fornì ulteriori schiarimenti. — Voleva mordermi, ma io con un segno di croce e una tiratina di spago l’ho ridotto all’impotenza…. E son più convinta che mai ch’era il diavolo…. Vedrà, vedrà se adesso tutto quanto non si rimette a posto.

La Cesira era così sfolgorante d’orgoglio per l’azione eroica compiuta (aveva strozzato il diavolo, nientemeno!), si mostrava così sicura dei risultati finali della sua magnanima impresa che don Prospero rimase senza parola. Non osò nè lodarla nè rimproverarla; le invidiò la sua fede; si sforzò di credere che l’eccidio del gatto Masaniello, bestia scontrosa e antipatica, potesse, secondo la frase della serva, rimetter tutto quanto a posto. Monsignor vescovo, forbito oratore, gli aveva ben detto, pur dianzi, che le vie della Provvidenza sono imperscrutabili.

Ma la Cesira, che non comprendeva il riserbo del suo padrone, raccolse da terra la sua vittima e si ritirò sdegnosamente in cucina, borbottando: — Oh, gli uomini!

 

NELLE VACANZE DI SUA ECCELLENZA

Enrico Castelnuovo

Sua Eccellenza l’onorevole Tito Cervara, sfuggendo per miracolo alla vigilanza dei subalterni ossequiosi, degli amici zelanti, dei sollecitatori molesti, s’era fatto condurre in vettura chiusa di piazza al principio del viale d’ippocastani, fuori d’una delle porte della cittadina universitaria ove trent’anni addietro egli aveva compito i suoi studi e ove adesso era andato a passare i due ultimi giorni delle sue vacanze ministeriali. Vacanze così per dire, giacchè in meno di tre settimane Sua Eccellenza aveva dovuto pronunziare un paio di discorsi politici, assistere a sette banchetti e rispondere ad altrettanti brindisi, accordare ventiquattro colloqui, intervenire a sei cerimonie inaugurali, accettare dieci presidenze onorarie, promettere duecentocinquanta chilometri di ferrovia, trenta croci di cavaliere, nove ufficialati e cinque commende. Forse il pensiero di questi impegni assunti troppo leggermente gli toglieva di gustare, com’egli aveva sperato, la passeggiata solitaria lungo il bel viale pieno per lui di tanti ricordi della giovinezza.

Quante volte, nelle limpide mattine d’estate, all’avvicinarsi degli esami, egli era venuto qui insieme con uno o due condiscepoli a ripassare i suoi quaderni; quante volte c’era tornato al crepuscolo in compagnia degli amici ilari e rumorosi, cantando gaie canzoni, recitando poesie, disturbando colle grida e col chiasso i pacifici borghesi usciti a prendere il fresco a piedi o in carrozza! E anche nella quiete silenziosa delle sere senza luna egli aveva sovente percorso quel viale a fianco di qualche facile bellezza che nè chiedeva nè offriva perennità d’affetto, ma in quello sbocciar della vita lo attirava col fascino e con le insidie dell’eterno femminino.

Erano passati trent’anni da allora; gl’ippocastani erano sempre gli stessi; trent’autunni li avevano sfrondati, trenta primavere li avevano rivestiti di nuove foglie senza scemar vigore alla loro robusta vecchiezza; ma quelli che trent’anni addietro s’eran riposati alla loro ombra, avevano inciso le proprie iniziali sul loro tronco, avevano raccolto il frutto selvatico caduto dai loro rami, dov’erano adesso?.. L’antico studente diventato ministro poteva ben ripetere col personaggio della Sonnambula

Cari luoghi, io vi trovai,

Ma quei dì non trovo più.

Due carri di fieno tirati da buoi procedevano lentamente verso la città; in senso opposto venivano una timonella e due biciclette, una delle quali, non avendo altra strada libera, invase il sentiero dei pedoni e rasentò le gambe di Sua Eccellenza, che piegò istintivamente a sinistra, verso una panca di pietra ove stava seduto un uomo di età matura con un giornale in mano. L’uomo, d’aspetto civile, indossava un vestito di lana color pepe e sale, aveva un cappello a cencio sotto cui spuntavano i riccioli d’una chioma brizzolata, e teneva stretto fra le ginocchia un ombrellone blù, da parroco di campagna. Al movimento fatto da Cervara per scansarsi dalla bicicletta, egli alzò gli occhi, si turbò, e, come seccato dell’incontro, tornò a sprofondarsi nel suo giornale.

Ma anche gli occhi del Ministro s’eran fissati sul lettore solitario, ne avevano in un lampo scrutato la fisonomia e correndo a ritroso del tempo avevano rievocato l’immagine d’un giovine di ventidue o ventitrè anni, bello della persona, mediocre d’ingegno, gentile d’animo, ardito, entusiasta, un misto di poeta e di sognatore.

E dalla bocca, quasi inconsapevole, di Sua Eccellenza uscì un nome: — Varesio!

Ecco, quantunque gl’intrighi della politica, la caccia agli onori, l’abitudine del potere non avessero interamente guastato il cuore a Tito Cervara, è da scommettere che, in condizioni ordinarie, egli, pure imbattendosi in Varesio, non avrebbe fatto un passo verso il vecchio camerata, il quale mostrava in modo manifesto di voler schivarlo. Sarebbe accaduto a lui quello che, pur troppo, accade in generale a noi tutti, allorchè queste larve d’un passato remoto sorgono d’improvviso in mezzo alla nostra vita febbrile e spesso affaccendata in minuzie. Pensando alla seduta ove siamo attesi, al caffè che siamo avvezzi a sorseggiare, alla visita che ci siamo impegnati a fare in quell’ora, noi siamo lieti se ci riesce di sgattaiolar via inavvertiti, o di cavarcela con un cenno del capo o un buon dì frettoloso.

Ma Sua Eccellenza era in speciali disposizioni d’animo; il suo camerata gli appariva in un momento nel quale tutto l’esser suo era attirato da una forza irresistibile verso la giovinezza, verso gli anni di bagordi e di studi, e nella sua bella voce baritonale c’era un calore comunicativo quand’egli si fermò sui due piedi e ripetè il nome pronunziato pur dianzi: — Varesio!

Poichè ormai non c’era più scampo, costui si levò da sedere, rosso, confuso e si portò la mano al cappello.

— Bando alle cerimonie, — disse Cervara arrestandogli il braccio. — Mi riconosci?

— Sfido io a non conoscere il signor Ministro, — balbettò Varesio.

— Per amor del cielo, lascia stare il signore e il Ministro. Qui non sono che Cervara, Tito Cervara, il tuo condiscepolo d’Università…. Via, dammi un bacio.

L’altro, sebben riluttante, cedette; quindi, abbozzato un sorriso, esclamò: — Quanti anni!

— È meglio non contarli.

Però Varesio fece un calcolo mentale e soggiunse: — Sicuro, dacchè abbiamo preso la laurea insieme ne son corsi trenta.

— Ci siamo visti ancora.

— Sì, a Milano dopo la guerra.

— Indossavi la camicia rossa, avevi combattuto valorosamente, e come t’ho invidiato in quei giorni, io ch’ero dovuto rimanere a casa!… Circostanze….

— È sempre un quarto di secolo che non ci si vede, o almeno che non ci si parla, — osservò Varesio.

— Giuro ch’io non t’ho visto.

— È naturale; gli uomini illustri non vedono gli uomini oscuri, ma questi possono veder quelli.

— Smetti l’ironia. Perchè non mi hai cercato?

— Scusa, — replicò Varesio, — in ogni caso eri tu che dovevi cercar me.

Cervara fece un gesto di meraviglia. Non era abituato a sentirsi parlare con tanta libertà.

— S’intende, — continuò l’amico. — Tu fosti presto un personaggio d’alto affare; cercandoti, avrei fatto credere che volevo implorar grazie e favori.

— Sempre orgoglioso, — notò il Ministro. — Ciò non toglie che tu abbia ragione; dovevo cercarti io…. Cosa vuoi? Non è che non si ricordi; gli è che noi uomini politici siamo trascinati in una baraonda. A ogni modo, ti dò la mia parola d’onore ch’io ignoravo che tu fossi stabilito qui…. Da studente avevi la tua cameretta, come me, e nelle vacanze andavi in famiglia.

— Sì, — rispose Varesio, — andavo in campagna…. a una trentina di chilometri…. Siamo rustica progenie…. Quando son rimasto solo, ho venduto quel po’ di terra che avevo e mi son fatto cittadino.

— Sei solo?

— Solo.

— Non hai preso moglie?

— Son vedovo.

— Da un pezzo?

— Da quindici anni.

— Oh poveretto!… E figliuoli?

— Ne avevo due, e son morti bambini.

Varesio scosse la testa e disse al Ministro che lo commiserava: — Vedi bene, non vivo, sopravvivo…. Basta…. E tu sei sempre scapolo?

— Sì, e me ne pento.

— Avresti tempo ancora.

— Ah nemmen per idea…. È troppo tardi.

— Non c’è dubbio, se si trattasse di sposare una giovinetta, — principiò Varesio. Ma s’interruppe per guardar in alto; stette pochi secondi col braccio teso, col dorso della mano vôlto all’insù, e soggiunse: — Piove…. Non hai ombrello?

— Io no.

— Vieni sotto il mio…. Alla barriera troverai un fiacre.

— Ma io ce l’ho il fiacre…. L’ho lasciato appunto laggiù, alla barriera.

— Hai un fiacre come un semplice borghese?

— Sì, e grazie al cielo il cocchiere non mi ha conosciuto.

— Allora t’accompagno fin là.

Varesio aperse un ombrellone grande così da poter riparare un’intera famiglia, e disse con una risata che pareva l’eco di giorni lontani:

— Questo baldacchino non s’immaginava di dover protegger dall’acqua un Ministro del Regno d’Italia.

— Ma neppur noi, — riprese Cervara, — ci immaginavamo venti minuti fa di trovarci qui, proprio qui, ove si veniva la mattina con le litografie del diritto romano e la sera con le crestaie della città.

S’avviarono a braccetto, sotto la pioggia, ravvicinati un istante da quella visione del passato che colmava l’abisso ond’erano divisi i loro destini.

Infervorato a discorrere, il Ministro non si accorgeva nè dell’avanzarsi d’una vettura sullo stradone, nè dei segni che gli faceva il cocchiere.

Se ne accorse Varesio e ne avvertì il compagno: — Bada, fa dei segni a te.

— Chi?

— Quel fiaccheraio…. È il tuo?

— È vero, è il mio. Gli avevo ordinato d’aspettarmi.

Il legno si fermò, e il cocchiere, scendendo da cassetta disse a Cervara che, vista la pioggia, aveva creduto opportuno di venirgli incontro.

— Avete fatto bene, — disse Sua Eccellenza. E rivoltosi a Varesio: — Ora t’offro io l’ospitalità nella mia vettura. Dove vai?

— Non vado. Resto.

— Con questo diluvio?

— Sotto gli alberi si è sempre riparati a bastanza…. E poi è un acquazzone che passa…. Quando sarà cessato, andrò a casa.

— Insomma, t’accompagno io a casa. Dà il tuo indirizzo…. su, su.

Ma Varesio si schermiva ancora. — Sto al capo opposto della città.

— Ragione di più, — ribattè il Ministro. E con amichevole violenza forzò Varesio a montare.

Il vetturale fece un gesto per chiedere: Dove? Sua Eccellenza accennò a Varesio.

— Domandate al signore.

L’interrogato si decise a indicare il nome di una strada, scusandosi che fosse proprio agli antipodi.

— Gran che! — esclamò il Ministro. — Non siamo nè a Londra, nè a Parigi. — Il cocchiere montò in serpe e sferzò il cavallo.

Alla barriera vi fu una sosta. Una guardia daziaria si accostò allo sportello. — Niente di da….?

Ma non finì la parola, tale fu lo sgomento che lo colse trovandosi faccia a faccia con Sua Eccellenza.

Ritto sotto la pioggia, con la mano destra al berrétto in atto di saluto militare: — Avanti, avanti, — disse al fiaccheraio. E nello stesso tempo gli slanciava un’occhiata fulminea. O non poteva avvisarlo, quell’imbecille?

— Addio incognito, — notò, scherzando, Varesio.

Indispettito, il Ministro si rincantucciò nell’angolo del fiacre.

Ma lì veniva a cercarlo, attraverso il vetro circolare del finestrino centrale, lo sguardo inquieto del cocchiere che non aveva ancora capito qual personaggio avesse in carrozza. Era, sia detto a sua scusa, un vecchio misantropo che si mescolava poco ai suoi colleghi, e non frequentava le bettole e non leggeva i giornali.

— E ora questo balordo che si volta ogni momento ci farà ribaltare, — borbottò Cervara.

— Speriamo di no.

— Speriamolo, — ripetè laconicamente il Ministro. E riprese: — Ah, se non dovessi partir domani per Roma vorrei che andassimo un giorno insieme in tutti quei posti ove andavamo da studenti, al Caffè Narciso, per esempio. C’è sempre?

— Ha cambiato nome. È Caffè Caprera.

— Ecco perchè non mi raccapezzavo. E l’osteria Al doppio litro, fuori di Porta Merlata, c’è?

— C’è.

— Continua ad attirar gli studenti?

— Meno d’una volta, ma ci vanno.

— Ti ricordi delle cene che si facevano in compagnia allegra? Ti ricordi che tavolate? Pagherei tanto a sapere come han finito quei commensali, maschi e femmine…. Tu li hai presenti tutti?

— Non tutti. Parecchi.

— Racconta, racconta.

— Alcuni son morti. Francini a Bezzecca, nel 66….

— Sì, poveretto…. Che bel giovine era!

— E buono. Anche Degalli e Rispolo e Marcucci….

— Aspetta. Degalli era un piccolo, biondo?…

— Appunto.

— Aveva il padre magistrato?

— Sì…. Era entrato nella magistratura anche lui, e morì pretore in Sardegna…. Roba vecchia ormai!

— E gli altri due che hai nominato? Rispolo e Marcucci, mi pare…. È curioso, non riesco a farmeli venire in mente.

— Come? Nemmeno Rispolo, il nostro baritono, che ci assordava con quel suo: Sì vendetta, tremenda vendetta?

— Ah, quello era?… Quello con due grandi baffi che molti di noi gl’invidiavano? L’immagine della salute e della forza?… Morto?

— Dopo aver fatto cento mestieri: il cantante, l’impiegato, l’agente teatrale, il faccendiere…. Anzi, in seguito ad affari un po’ loschi, era dovuto emigrare agli Stati Uniti, ove lasciò la pelle in uno scontro ferroviario, tre o quattr’anni or sono.

— Che fine tragica!… E Marcucci, chi era Marcucci?

— Un romantico magro, allampanato, che quando aveva bevuto un bicchiere di troppo piangeva a calde lacrime, e parlava in francese, e voleva abbracciar tutti…. Non diventava una fiera che se gli toccavano la sua Luisa…. A proposito, la Luisa era una delle ragazze che qualche volta venivano a cena con noi…. Era molto bellina; alta, snella, coi riccioli bruni…. Lavorava di guanti, pel negozio Gragno, sotto i portici.

— Sì, sì…. Ne ho una reminiscenza confusa….

— Ebbene; Marcucci, non riuscendo a liberarsene, la sposò…. Poi si son divisi, si son riuniti, si son tornati a dividere, e finalmente son morti a due mesi d’intervallo.

— Dio, che cimitero! — interruppe Cervara. — Passiamo ai vivi.

— Oh, — ripigliò Varesio, — non credere che ci sia molto da dire…. Intanto, da te in fuori, nessuno è salito in auge.

— Per carità, tira via…. Son di quei gusti che si pagano salati.

Varesio continuò. — Staglieno e Vischi fanno gli avvocati a Milano, Ludovisio è sostituto procuratore generale in Romagna.

— Passerà presto in cassazione, — notò il Ministro. — Credo che il decreto sia già sottoposto alla firma di Sua Maestà.

— Ecco che sul conto di questo sei più informato di me, — osservò l’amico. — E Fedrighi che tempesta mezzo mondo con domande di sussidi, è impossibile che non t’abbia mai preso di mira.

— Figurati. Ricevevo una sua lettera ogni quindici giorni. A Roma un anno fa ho dovuto metterlo alla porta. Egli se ne vendicò con un libello inserito in una gazzettaccia di provincia…. Quel Fedrighi chi avrebbe creduto che fosse disceso così basso?… Se c’era uno a cui fosse lecito pronosticare un avvenire brillante, era lui…. Aveva una facoltà d’assimilazione maravigliosa.

— Sono i suoi vizi che l’hanno ridotto a quel punto.

Varesio menzionò altri condiscepoli che a lui pure erano sfuggiti di vista e dei quali ignorava che cosa facessero e dove fossero. Ma dietro a questi s’agitava, assai più numerosa, nella memoria sua e in quella di Cervara, una turba anonima; fantasmi vaporosi che per un istante accennavano a emerger nella luce, a pigliar forma e colore, e che ripiombavano poi nelle tenebre.

— Ah! — pensava il Ministro. — È pur triste la vita! Si è passata insieme la giovinezza ricca di entusiasmi e di fede, affratellati nella più dolce e gaja intimità, seduti sullo stesso banco alla scuola, alla stessa tavola alla trattoria; si è partecipato alle stesse solennità, battendo le palme nel medesimo applauso, alzando le voci nel medesimo grido; ed ecco che, appena il portone universitario si è chiuso l’ultima volta dietro di noi, è come se un turbine c’investa e disperda. Pochi anni bastano a renderci o nemici, o estranei, o, peggio ancora, ignoti gli uni agli altri; ignoti così che il labbro non riesce nemmeno a formare il nome di molti fra i camerati d’un tempo…. E che cosa si sa anche di quelli di cui pur si trovan le traccie?

A questo punto Sua Eccellenza dovette riconoscere ch’egli ne sapeva pochissimo di Varesio, il quale, tranne che del suo matrimonio e della sua vedovanza, non aveva finora detto nulla dei fatti suoi.

E rivolgendoglisi con sollecitudine non ostentata,

— Lasciamo in pace gli altri — disse. — Narrami di te…. Ho sentito le tue disgrazie domestiche, ma pel rimanente come va? Di che ti occupi? Eserciti l’avvocatura?

— Sono inscritto nell’album, ma non esercito. Tutt’al più dò dei consulti gratis ai poveri diavoli che non sarebbero in grado di pagar la specifica.

— Sei ricco dunque…. o almeno agiato?

— Ho una piccola rendita sufficiente ai miei bisogni…. O che c’è?

La carrozza s’era fermata per un intoppo. Varesio sporse la testa fuori del finestrino, e Cervara, istintivamente, fece lo stesso dalla sua parte.

Due o tre giovinotti che uscivano da una bottega di liquorista esclamarono: — Oh, il Ministro!

Cervara si tirò indietro rapidamente, ma già l’esclamazione era stata intesa, e molti curiosi s’avvicinavano alla vettura e s’alzavano in punta di piedi per veder dentro. Non pioveva quasi più; un raggio di sole uscente dai nuvoli metteva una nota allegra sugli ombrelli lucidi e sulle pozze d’acqua della strada.

— Il Ministro in compagnia dell’avvocato Varesio! — disse qualcheduno con accento di meraviglia.

Altri si toccarono rispettosamente il cappello. Un ministro! Non si sa mai.

Sua Eccellenza era sulle spine. — Non si potrebbe prendere una via traversa?

— Credo che qui sia difficile voltarsi — rispose Varesio. E urlò al fiaccheraio: — Si va o non si va?

— Or ora — disse questi più confuso che mai dopo che aveva saputo di portare un’Eccellenza. — Appena quel baroccio là si sarà avanzato di pochi metri passeremo anche noi…. Ecco…. finalmente….

Menò una buona frustata al cavallo e sguisciò tra il baroccio e il marciapiede. Indi, con un coraggio che gli cresceva di mano in mano che andava allontanandosi, diede dei somari e dei tangheri ai barocciai che non s’erano affrettati a lasciargli posto.

Varesio intanto seguiva il suo pensiero. — Vorrei sentire i commenti che fanno quei bellimbusti per averci visti insieme.

— Non lo si sa in paese ch’eravamo condiscepoli?

— Lo saprà forse uno su cento.

Senza voler confessarlo a sè stesso, il Ministro cominciava a trovarsi a disagio. Temeva di aver mancato della circospezione necessaria a un uomo politico, insistendo per far montare Varesio nella sua vettura. In fin dei conti, chi era adesso Varesio? Che gente frequentava? Che posizione aveva?

E cedendo alla sua curiosità inquieta, Cervara ripigliò:

— Sicchè, dopo aver preso parte alla guerra d’indipendenza, non hai più voluto ingerirti nella vita pubblica?

Varesio atteggiò il labbro a un sorrisetto enigmatico.

— Cioè…. cioè…. Sono stato persino candidato alla deputazione.

— Davvero?… Quando?

— Oh…. in illo tempore…. Ero…. sono anche adesso del resto…. Presidente della Società dei Reduci, dell’Associazione democratica Giuseppe Garibaldi, della Dante Alighieri, del Circolo Istria e Trentino (che fu poi sciolto dal Governo) e nell’elezioni del 1874 gli avanzati mi contrapposero al deputato governativo uscente…. Fu un bel fiasco.

— Non hai più ritentato la prova?

— No; alle elezioni successive anche il nostro partito si divise in due; la maggioranza appoggiò un candidato che non era nè carne nè pesce e che riuscì….

— Sei radicale, tu, sei intransigente — notò Cervara con un’ilarità forzata.

— Radicale? Intransigente?… Ho le mie idee, sbagliate forse…. le idee che avevo da giovine…. che avevamo tutti allora…. Ah, l’Italia che sognavamo era molto più bella di quella che ci avete data.

Il Ministro allargò le braccia. — I sogni, caro mio, son sempre più belli della realtà…. Guai a esigere troppo!

— Guai anche a contentarsi di troppo poco! — ribattè pronto Varesio. — Ma se ci mettessimo a discutere non la finiremmo più…. Già, secondo i vari Prefetti nella nostra Provincia, io sono una testa esaltata.

— Sei in attrito coi Prefetti? — chiese Cervara. E si agitava sul sedile come persona che ha fatto una cattiva digestione.

— Son loro che s’adombrano peggio dei cavalli — rispose Varesio. — Questo qui meno male, ma i suoi predecessori!… Ce n’era uno che mi mandava a chiamare ogni momento per avvertirmi ch’ero io responsabile dell’ordine pubblico…. Stupido!… Nel 1875, quando l’Imperatore d’Austria fu a Venezia, io ebbi il divieto d’andarvi…. Ero guardato a vista…. Una specie di domicilio coatto…. Che miserie!

Parve a Sua Eccellenza che i doveri dell’ufficio gl’imponessero di prender le difese dei funzionari malmenati così.

— Eh, non lo nego, i Prefetti peccano qualche volta per eccesso di zelo…. Ma bisogna mettersi nei loro panni…. Se succedono inconvenienti, son loro i capri espiatorii…. Con questo però sei in buoni termini, mi dicevi….

— Non sono in termini nè buoni nè cattivi…. dicevo soltanto ch’è meno noioso…. In fondo, credo che abbia sul conto mio l’opinione che avevano gli altri…. Interrogalo….

Cervara fece una spallucciata. Importava molto interrogarlo ormai!

Come se gli leggesse nell’anima, Varesio soggiunse:

— Guarda che disgrazie possono capitare a un Ministro del Regno d’Italia!… Di aver nella sua carrozza un individuo ch’è in mala vista delle autorità…. Non le consultate, al Ministero, le informazioni segrete?

— Canzonatore! — disse Cervara, tanto per dir qualche cosa.

— Il curioso si è — seguitò l’altro — che non sono in odore di santità nemmeno presso il mio partito. I giovani mi considerano un oggetto da museo, buono da portare in processione nei giorni di parata, quando si aduna un comizio, quando si appende una corona alla statua di Garibaldi, salvo a rimetterlo in vetrina a cerimonia finita…. Consolati che oggi non ti sei compromesso tu solo; mi son compromesso anch’io; i miei rivali mi accuseranno di aver patteggiato col potere e si serviranno dell’accusa per cercar di prendere il mio posto…. Si accomodino!… Il posto presto o tardi è necessario lasciarlo…. Resta sempre il fatto che sono un reduce autentico, io…. E nelle miserie e nelle bassezze presenti quest’è un gran conforto.

La voce di Varesio s’era animata; i suoi occhi lampeggiavano come se vi si riflettesse d’improvviso la luce dell’epiche pugne a cui egli aveva partecipato.

Il Ministro, nel quale non s’era interamente irrugginita la molla del patriottismo, gli strinse la mano in silenzio. Ma subito dopo, essendo la carrozza sboccata su un ponte, uscì in un oh lungo e giocondo, e disse:

— È il ponte di San Matteo questo?

— Sì.

Non largo ma gonfiato dalla pioggia, il fiume aveva in quel punto un aspetto assai pittoresco. Da una parte le vecchie case diroccate scendevano a piombo nell’acqua, proiettandovi mobili ombre che la corrente pareva voler trascinare con sè; dall’altra la sponda digradava con leggero pendìo, e sul greto ove cresceva tra i sassi qualche tisico arbusto le lavandaie tendevano le funi per asciugarvi i panni bagnati. Tendevano le funi e cantavano, e le loro voci squillanti si mescevano alla voce cupa del fiume che incalzava rapido e inquieto, biancheggiando qua e là d’una spuma sottile come una trina e perdendosi lontano tra i pioppi ed i salici. Il sole, vittorioso, rischiarava la scena.

— Qui nulla è cambiato dai nostri tempi — disse Cervara. E, di nuovo, la gaia visione del passato aveva dissipato le ombre dalla sua fronte.

L’amico sorrise. — Son cambiate le lavandaie.

— Che non ce ne sia neanche una di quelle che ci erano allora?

— Laggiù no. Non lo vedi? Son tutte giovani.

Subito dopo il ponte, Varesio si sporse dal finestrino e chiamò il fiaccheraio.

— Sarebbe la prima strada a destra, ma puoi fermarti qui. — E voltandosi verso il Ministro:

— Ora scendo. È inutile che ti faccia venir più in là.

— Non eravamo intesi che ti avrei accompagnato fino a casa?

— Se pioveva…. Non piove…. E poi se avessi una casa mia, se potessi dirti di salirvi almeno per un minuto, sarebbe un’altra faccenda…. Ma non ho casa, non ho che una camera ammobigliata…. Sono tornato scapolo…. Ferma, fiaccheraio, ferma.

— Sei irremovibile?

— Sì, abbi pazienza.

— Allora chi sa quando ci si rivede, perchè io parto domani e ho impegni per stasera e per domattina…. All’albergo non mi troveresti solo.

— E sarei un pesce fuor d’acqua…. No, no, salutiamoci adesso.

Si baciarono sulle due guancie; indi Varesio saltò giù dal fiacre, fece ancora un cenno d’addio con la mano, e s’allontanò frettoloso.

— Se vieni a Roma…. se t’occorre qualcosa — gli gridò dietro il Ministro. E pensava, egli avvezzo a vivere in mezzo ai sollecitatori: — Non m’ha chiesto nulla. E nemmen io gli ho offerto nulla. Che potevo offrirgli?

— Dove desidera Sua Eccellenza?

Era il cocchiere che, immobile e a capo scoperto davanti allo sportello, attendeva gli ordini.

Cervara si scosse. — Alla Croce di Savoia. Per la via più breve.

Quella sera a teatro il commendatore Prefetto, visitando il Ministro nel suo palco, fece una discreta allusione all’incontro di lui con Varesio.

— Siamo stati all’Università insieme — spiegò Sua Eccellenza.

— Oh un onest’uomo — soggiunse il Prefetto. — Un po’ esaltato…. Alla testa di tutte le dimostrazioni….

— Proprio io non sapevo niente di tutto ciò — disse Cervara ridendo.

— Me l’immaginavo…. Del resto, lo ripeto, un onest’uomo.

Ma la sera stessa un corrispondente di giornali, compreso dell’alta dignità del suo ufficio, telegrafava a Roma e a Parigi:

Il Ministro Cervara ebbe oggi intimi colloqui con l’avvocato Varesio, presidente della Società dei reduci e del Circolo Istria e Trentino. La cosa fece molta impressione avvalorando la voce già corsa sulla evoluzione politica del Gabinetto.

Ne venne di conseguenza che, appena giunto alla capitale, Cervara ebbe un’amorevole tiratina d’orecchi dal Presidente del Consiglio.

— Sì, sì, sono bazzecole, e il corrispondente è un asino che vuol darsi importanza…. Ma noi dobbiamo andar coi piedi di piombo…. Son troppi quelli che aspirano a raccogliere la nostra successione…. E, vede, fin che si tratta di prometter ferrovie, decorazioni, sussidi, eccetera, poco male…. Son ferri del mestiere; se si può si mantiene; se no, si ha sempre la scappatoia di dire che gli eventi sono mutati…. L’essenziale è non sbilanciarsi con gli avversari….

Più rude assai fu il collega del Tesoro. — Io ho bisogno che la Rendita aumenti e lei co’ suoi colloqui intimi me la fa ribassare.