Venezia, lunedì, 31 maggio 1886.
Quest’album è invecchiato con le pagine bianche. L’ebbi in dono dieci anni fa dalla povera mamma, quando, dopo aver letto Miranda del Fogazzaro, mi venne il ghiribizzo di aver anch’io un album per scrivervi, come Miranda, giorno per giorno i miei pensieri. Poi non vi scrissi nemmeno una riga…. Può darsi che io sia volubile e capricciosa, ma se debbo esser giusta ho pure un fondo di sincerità e di schiettezza…. Riflettendoci bene, mi parve che questo registrar solennemente tutte le fanfaluche che ci passano pel capo sia una bella caricatura, tanto più che in via ordinaria la vita d’una ragazza non è piena di avvenimenti, nè il suo cervello è fecondo di pensieri che meritino di esser raccomandati alla posterità…. E dicci anni or sono la mia vita si svolgeva placida, come acqua tranquilla di fiume dentro i suoi margini, e in quanto a pensieri…. ne avevo così pochi!… Più tardi capitarono i guai, e volti diletti si scolorarono e care voci ammutolirono per sempre…. oh mi sarebbe parsa una profanazione il sedermi a tavolino con la penna in mano per dare una forma letteraria a’ miei sentimenti.
O dovevo forse notare le freddure di qualche bellimbusto, dovevo descrivere la corte che qualcheduno mi fece nei tempi lieti, salvo a piantarmi in asso nei tempi della sventura? No, no, abborro le inutili querimonie.
Avrei potuto invece, come usano tante, seccare il prossimo, affannarmi a raccogliere autografi illustri, detti memorabili, aborti poetici e sgorbi pittorici; o, più modestamente, seguendo l’esempio della mia amica Dall’Orno maritata a Vicenza, riempire il mio album con le oleografie della Mode Illustrée…. Ho preferito lasciarlo dormire per dieci anni.
Oggi l’ho tirato fuori dal suo cassetto, l’ho spolverato, l’ho aperto, e son qui, son proprio qui, seduta al tavolino, e la mia penna corre su queste pagine, e nonostante la mobilità del mio carattere credo che per qualche settimana ancora dedicherò a tale occupazione un’oretta al giorno.
Gli è che mi trovo in un momento solenne della mia vita, un momento di cui desidero raccogliere e serbar tutte le impressioni e tutti i ricordi. Sto per abbandonar forse per sempre la mia città, la mia patria, sto per andar a migliaia e migliaia di miglia da qui, in un paese di cui ignoro la lingua, dove sarò a poco a poco dimenticata da conoscenti ed amici, dove, passati alcuni mesi, non mi giungerà più una parola dalla mia Venezia…. Non è morire, ma ci somiglia.
Scommetto che chi leggesse queste righe direbbe: — Ah, una ragazza che si marita all’estero…. Solite smorfie.
Non mi marito. Senza esser bella non sono neanche un mostro, ma il fatto si è che ho venticinqu’anni compiuti e il mio sposo è sempre di là da venire. Intanto vado a Tiflis a raggiungere un mio fratello che è stabilito laggiù e al quale, dopo la morte del povero zio, il mio unico sostegno da quando son rimasta orfana, dovevo pur scrivere per dir ch’ero sola e che, una volta venduti i quattro stracci che avevo, sarei rimasta sul lastrico. Fu una grande umiliazione, perchè di quell’Odoardo, sebbene mio fratello, io rammento appena la fisonomia; perchè ci siamo scambiate con lui forse tre lettere in tutta la vita; e perchè infine, com’io sento pochissimo la famosa voce del sangue, così non posso pretendere che la sentano molto gli altri…. Che cosa importa chiamarsi fratello e sorella quando non s’è cresciuti insieme, quando non s’è avuta nessuna comunanza di pensieri, di dolori, di gioie?
Eppure, come si fa? Con l’educazione da signorina che ho ricevuto, guadagnarmi di punto in bianco da vivere m’era impossibile. Non sono un’ignorante, ma non so nessuna cosa in modo da accingermi ad insegnarla; non l’italiano e non il francese, non la musica e non il disegno. Forse con un po’ di studio, con un po’ di pazienza ci riuscirei, e in verità quello ch’io desideravo da Odoardo, il quale ha voce d’essersi messo da parte una discreta fortuna, si era ch’egli mi passasse un modesto assegno mensile fintantochè io fossi in grado di bastare a me stessa. Egli però, con tutto il suo comodo, mi rispose che poteva fare una cosa sola: prendermi seco. Avrei avuto una posizione agiata, indipendente, sicura, e lo avrei certo risarcito ad usura dell’ospitalità ch’egli mi offriva tenendogli in ordine la casa, o a meglio dire permettendogli di avere una casa propria in luogo di essere in balìa di gente mercenaria. Ci pensassi su, e se accettavo la sua proposta gli spedissi un telegramma. Egli mi avrebbe subito rimesso i fondi per il viaggio. Un viaggio, a sentir lui, che non deve spaventarmi. Io non avevo che da prendere il vapore fino a Costantinopoli; egli mi sarebbe venuto incontro colà, dove lo chiamavano alcuni affari e dove si sarebbe trattenuto fino alla metà di luglio; da Costantinopoli un altro piroscafo ci avrebbe condotti insieme a Odessa, nel qual porto gli conveniva pure di fare una piccola sosta; di là ci saremmo imbarcati per Batum. Da Batum a Tiflis c’è la strada ferrata. Badassi bene di telegrafargli entro una settimana dall’arrivo del suo foglio; prima almeno del 30 di maggio, giorno in cui egli doveva partire senza fallo per Costantinopoli.
Questa lettera, lo confesso, mi suscitò una tempesta nell’anima. Rispondere di sì era proprio giocare un terno al lotto; se c’era incompatibilità di carattere tra mio fratello e me, se il clima di Tiflis non si confaceva alla mia salute, se m’assaliva la nostalgia?… Ma d’altra parte risponder di no era precludermi la sola via d’uscita dagl’impicci in cui mi trovavo, era mettermi nella necessità di batter di porta in porta alla ricerca d’un’occupazione pur che sia, e, peggio ancora, espormi alla mortificazione delle beneficenze mal simulate; inviti a desinare o in campagna, regali d’abiti dimessi e altre cose simili…. Alla lunga poi, qualcheduno mi avrebbe detto: — Ma, cara Elena, perchè vi siete lasciata sfuggir la buona occasione? — E allora mi sarebbe convenuto scrivere di nuovo a mio fratello, spiegargli le mie contraddizioni, pregarlo di compatirmi, d’accogliermi!… No, no, a questo non volevo assolutamente arrivarci…. Aggiungasi al resto il colèra che ha spopolato la città, che mi toglie perfino la speranza di procurarmi qualche lezione….
Troncai gl’indugi, e prima che spirasse il termine stabilito spedii il dispaccio…. Adesso attendo il danaro.
Non m’ero consigliata con anima viva. Consigliarsi in cose di poco rilievo, passi; ma in cose gravi, Dio mio!… È il vero modo per non venir più a capo di nulla. Ognuno dà un parere diverso e si finisce coll’aver la testa come un cestone.
Così, quando, dopo l’invio del telegramma, annunziai alla signora Celeste, la mia padrona di casa, che probabilmente sarei tra non molto partita, per Tiflis, nel Caucaso, ella rimase fulminata. Non occorre dire che le cognizioni geografiche della signora Celeste sono men che mediocri, e che quest’era la prima volta ch’ella sentiva parlare del Caucaso e di Tiflis…. — Vergine Santissima! — ella esclamò — e che paesi sono? — Ma…. paesi alquanto lontani. — Più lontani di Verona? — ella chiese. — Verona dov’ell’ha una cugina maritata è il punto estremo a cui la signora Celeste si sia spinta nello sue peregrinazioni. — Molto, molto più in là — risposi sorridendo; — paesi che son fuori d’Europa, in Asia. — La signora Celeste che non ha idee chiare delle cinque parti del mondo congiunse le mani in atto di dolorosa maraviglia. — In Asia! Dunque più in là anche di Milano?
— Più in là, più in là — replicai.
Un’idea terribile balenò nella mente della signora Celeste.
— Andrebbe, Dio guardi, fra i Turchi?
— Ci sono anche dei Turchi, ma la città appartiene ai Russi, che sono cristiani.
— E ha preso una risoluzione simile così su due piedi? — seguitò la buona donna che non sapeva darsi pace. — E può serbar questa calma?
— Cara signora Celeste — dissi io — bisogna far di necessità virtù.
Del resto, la mia calma non era che apparente, e poi che fui nella mia stanza ed ebbi dato il chiavistello all’uscio mi gettai con la faccia sul letto, e inondai i guanciali di lacrime, e mi parve che sarei stata tanto contenta se avessi potuto ritirare il telegramma e non partir più. Ma ormai non c’era rimedio.
Il male si è che quanti più giorni passano tanto più sanguina la ferita che questo prossimo distacco dalla mia patria mi ha aperto nel cuore. Provo dentro di me un non so che d’inesplicabile. Questa città dove son nata e cresciuta, di cui ho percorso forse tutte le strade e calcato tutte le pietre, acquista ora per me un fascino nuovo; non posso uscir di casa senz’aver qualche argomento di sorpresa. Dico a me stessa: — Come? Non m’ero mai accorta di quell’effetto di luce, di quel contrasto di colori, di quello scorcio così pittoresco? Cara, cara Venezia!… Mi piacciono persino le suo brutture, le sue bicocche più diroccate, le sue calli più anguste, i suoi rii più sudici. E anche questa è curiosa. Cento faccie indifferenti che ho incontrato mille e mille volte sul mio cammino, cento faccie di persone delle quali ignoro il nome pigliano oggi a’ miei occhi un aspetto insolito; mi sembra quasi ch’esse mi guardino con simpatia; mi sembra che, s’io le incoraggiassi, le loro labbra si moverebbero per consigliarmi di non partire, di restar qui, in mezzo ad amici.
Illusioni, fantasie d’un cervello malato. Evidentemente è così, ma sento anche che quando sarò nella terra d’esilio, quando non vedrò più il bel cielo d’Italia nè al mio orecchio sonerà il nostro dolcissimo idioma, sarà un conforto per me il cullarmi in queste fantasie e in queste illusioni. Voi mi aiuterete a evocarle, o pagine discrete, alle quali confido i miei pensieri più intimi.
Martedì, 1º giugno.
In casa della signora Celeste, ch’è vedova d’un impiegato e alla sua magra pensione aggiunge il po’ che guadagna affittando camere ammobigliate, ci sono, oltre a me, due inquilini, il professor Verdani, bolognese, che veggo di rado e non sento mai, e il cavaliere Struzzi, colonnello in pensione, che non veggo quasi mai e che sento sempre.
La sua camera è dirimpetto alla mia, dall’altra parte del corridoio, e io comincio a gustar le gioie di sì amabile vicinanza la mattina quando la Gegia, la donna di servizio, va per tempissimo ad aprirgli le imposte. Allora egli inizia la giornata scagliandosi contro di lei o perchè è venuta troppo tardi o perchè è venuta troppo presto, e le dà della marmotta, della buona a nulla, concludendo col dire ch’è veneziana, e tanto busta. Poichè il colonnello, sebben veneziano nelle midolle, ostenta un grande disprezzo pel suo paese e pe’ suoi concittadini. Più tardi il bizzarro uomo si raddolcisce con la Gegia, ma ne fa la sua vittima in un altro modo, costringendola a ricevere i suoi sfoghi contro tutto e tutti, dai cuochi della trattoria che lo avvelenano coi loro manicaretti sino al ministro della guerra che lo ha messo in pensione prima di nominarlo generale. E una volta toccato questo tasto, non la finisce più. A differenza dei veterani che si vedono nelle commedie, ruvidi, brontoloni, ma pronti a rasserenarsi se possono discorrere delle loro gesta, il colonnello o si pente, o finge di pentirsi di tutto quello che ha fatto. È stato un prode, ha preso parte alle guerre d’indipendenza dal 1848 in poi, s’è guadagnata la medaglia al valor militare sul campo di Custoza e dichiara che doveva invece tenersi un banco di lotto come aveva suo padre, e non mischiarsi di politica, e non andar incontro alle palle e alle sciatiche per quelle fanfaluche che si chiamano libertà e indipendenza. Ma che libertà! Ma che indipendenza! Valeva la spesa di gettar via gli anni più belli della vita perchè cinquecento arruffoni potessero empir di chiacchiere quella loro gabbia di matti a cui diedero il nome di Parlamento?
Queste filippiche si rinnovano più volte nel corso della giornata sotto forma di soliloqui, specialmente quando il colonnello legge i fogli che gl’irritano i nervi, ma dei quali non può star senza. — Buffoni! — egli esclama di tratto in tratto rivolgendosi a interlocutori immaginari — Asini e buffoni!
Alle quattro pomeridiane il mio bell’originale esce di casa e va a deliziare con la sua festività i tavoleggianti del caffè e del restaurant; rientra poi alle dieci, e nelle rare occasioni in cui è di buon umore dice alla Gegia nell’atto di prendere il lume dalle sue mani: — Vado a mettermi orizzontale — locchè significa che va a letto. Se invece ha la luna a rovescio, ed è ciò che accade per solito, borbotta quattro impertinenze a modo di felice notte e si chiude con malagrazia nella sua camera per riaprir l’uscio di lì a poco e gettarne fuori gli stivali che talora vengono a battere sulla mia parete.
Ebbene; non c’è dubbio che il colonnello sia un vicino poco piacevole; ma in fin dei conti non fa male a nessuno e sento che mi parrà molto strano di non udir più la sua voce.
In quanto al professore Verdani egli è il perfetto contrapposto del colonnello. È un giovine pallido, studioso, timidissimo, taciturno. Lo incontro spesso per le scale ed egli si fa piccino piccino, e tenendosi alla propria destra rasente al muro si tocca col dito la tesa del cappello e bisbiglia un impercettibile: — Riverisco.
Il buon professore è l’idolo della signora Celeste. Così scrupoloso nel pagar la sua mesata, così pieno di riguardi, così affabile con lei e con la Gegia! È una brava persona anche, un uomo che col tempo diverrà famoso. La signora Celeste non se ne intende, ma glielo assicurò il bidello della scuola ove il professore dà le sue lezioni…. Ha ormai stampato dei libri!… A questo proposito la signora Celeste mi mostrò in gran segretezza un opuscolo ch’ella aveva preso sulla tavola del Verdani, un opuscolo composto proprio da lui e del quale egli aveva ricevuto dallo stampatore una cinquantina di copie, tantochè non si sarebbe nemmeno accorto del piccolo furto. Quell’opuscolo la signora Celeste non lo leggeva, perchè già non aveva confidenza con la lettura, e in ogni caso l’argomento era troppo difficile per lei…. Ma se volevo darci un’occhiata io che avevo studiato alla scuola superiore femminile?
Lo apersi per curiosità, e lessi il titolo: Angoli di due spazi contenuti nello spazio a N dimensioni.
Santo cielo! Questo è arabo, persiano, sanscrito.
So dalla Gegia che oggi i miei due coinquilini si sono occupati entrambi di me, mostrandosi, ciascuno a suo modo, dolenti della mia partenza. — Chi sa chi verrà in luogo suo — brontolò il colonnello — quella lì almeno non recava disturbo.
E il professore disse: — Mi dispiace davvero. Una signorina tanto per bene.
Mercoledì, 2 giugno.
Il colèra è da lunedì in qualche descrescenza, ma seguita a colpire più d’una trentina di persone al giorno. La città è squallida e triste. Dietro le vetrine delle botteghe non si leggono che avvisi mortuari di persone uccise dal fiero morbo, dal crudo morbo, dall’inesorabile morbo, eleganti perifrasi per indicare il colèra senza nominarlo. Le muraglie sono coperte di manifesti sesquipedali che vantano al pubblico le glorie di questo o quel preservativo infallibile.
Si vanno aprendo collette e istituendo comitati: della Croce verde, della Società del Bucintoro; si annunziano distribuzioni gratuite di commestibili, questue per le case, ecc., ecc.; tutta roba che fa salir la mosca al naso al colonnello Struzzi. L’ho sentito stamattina esprimere le sue opinioni in proposito alla Gegia. Che Croce rossa, o verde, o bianca?… Buffonate di gente che vuol mettersi in evidenza e magari buscarsi un cavalierato…. Ci credete voi al colèra?…. Non vi domando il vostro parere; può importarmene molto del vostro parere!… Ma vi dico io che non c’è colèra, non c’è che un branco di vigliacchi che scappano e un manipolo di vanitosi che si arrampicherebbero sugli specchi per richiamare l’attenzione sopra di sè…. Come quei dottorini della policlinica che girano per la città in cerca di colerosi, e quando non ce ne sono se ne inventano…. Saltimbanchi, saltimbanchi!… Oh nel 1849 sì che ci fu il colèra a Venezia, e avevamo più di quattrocento casi in un giorno…. Ma già voi non eravate neanche nata nel 49… Peggio per voi che vi toccherà stare di più in questo mondaccio…. Cosa c’è? Dove andate?
— Ma…. — balbettò la ragazza — hanno suonato alla porta di strada.
— Che aspettino…. Fin che parlo io, voi dovete rimanere…. Dove avete imparato la creanza?
In quel momento suonarono di nuovo, e siccome sapevo che la signora Celeste era uscita e ritenevo quindi che fosse lei, andai io stessa ad aprire.
Era invece il professore Verdani che aveva dimenticato la chiave di casa e veniva a prenderla. Figuriamoci com’egli rimase quando vide me sul pianerottolo, come arrossì, e quante scuse mi fece. Gli dispiaceva proprio d’avermi disturbata.
— Un disturbo piccolo — risposi; — La Gegia è tenuta in chiacchiere dal signor colonnello.
— Ah! — fece il professore.
E voleva aggiungere qualche cosa, e qualche cosa volevo aggiungere anch’io. Ma eravamo imbarazzati tutti e due e ci limitammo a un saluto più espansivo del solito.
A guardarlo bene il professore non è mica un brutto giovine….
Probabilmente la lettera di Odoardo è in viaggio. Ma da Tiflis a Venezia le lettere ci mettono un paio di settimane, sicchè ho da aspettare almeno dieci o dodici giorni. Sono curiosa di vedere quanti danari mio fratello mi manda, e aspetto la sua rimessa prima di fare alcune spese necessarie pel mio viaggio e di comperare qualche regaluccio per le mie amiche. S’egli non mi spedisce che quanto occorre strettamente pel tragitto a Costantinopoli, mi converrà vendere o impegnare i pochi oggetti preziosi che conservo come ricordi di famiglia…. Sarebbe un principiar molto male.
Sabato, 5 giugno.
Questa mattina la signora Celeste s’era fitta in capo di condurmi alla chiesa della Salute, ove c’è una funzione solenne per invocar dalla Madonna la cessazione del morbo che ci affligge. Io rispetto le credenze di tutti, ma non so simulare una fede che non ho. Rifiutai quindi d’accompagnare la mia padrona di casa nel suo pellegrinaggio, e per quietarla le promisi di non partir da Venezia senza essermi recata una domenica con lei a San Marco, all’ora della messa grande…. Ci andrò volentieri; la basilica è tanto bella! E poi non sono mica una giacobina, non ho mica l’orrore dei templi, non mi atteggio io, povera donna, ignorante, a libera pensatrice, a spirito forte…. Ho una ripugnanza invincibile a fingere, ecco tutto.
Del resto, la signora Celeste non è punto intollerante e fanatica. Siamo uscite insieme anche stamane di buonissimo accordo; ella andò alla sua chiesa, io andai da altra parte. Nel ritorno presi il vaporino a San Moisè e mi trovai seduta poco distante dal dottor Negrotti, il nostro medico antico, quello che mi ha vista nascere. Volevo salutarlo, ma egli era in compagnia, e miope com’è non mi ravvisò.
Passammo dinanzi alla Salute. La superba chiesa era aperta, sfavillante di ceri; moltissime gondole erano ferme dinanzi alla riva, quelle tra l’altre del Municipio, con le bandiere a prora e i barcaiuoli in tenuta di gala.
— Dottore — disse qualcheduno — ci crede lei alla Madonna della Salute quale specifico contro il colèra?
— Caro mio — rispose il medico — credo appena al laudano, e poco anche a quello.
Seguitarono così per un pezzo, tirando giù a campane doppie contro i pregiudizi popolari, contro le processioni di fanciulle scalze, contro la Giunta municipale che interveniva in pompa magna a una cerimonia religiosa.
— Meno male la Giunta! — sospirò con comica gravità il dottor Negrotti, — il peggio si è che ha voluto intervenirvi mia moglie, pigliando per sè la gondola e sforzandomi a girar per la città in vaporetto.
Il dottor Negrotti è molto invecchiato d’aspetto, ma è sempre lo stesso uomo, scettico, sarcastico; e non dubito che si sarà conservato buonissimo di fondo, caritatevole e leale a tutta prova.
Avevo rinunziato a salutarlo per oggi, quando alla stazione della Cà d’Oro vidi con piacere ch’egli s’accommiatava dagli amici e scendeva con me.
Me gli accostai tendendogli la mano. — Dottore, non mi riconosce?
— Oh! — fec’egli con un sorriso cordiale. — L’Elena?… Era in tram?
— Sì certo…. e a pochi passi da lei…. Ma non osavo disturbarlo.
— Perchè, perchè?… Oh come sono lieto di quest’incontro!… Dopo tanto tempo! E come va, cara Elena?
Una volta il dottor Negrotti mi dava del tu; adesso si capisce che gli faccio soggezione.
Camminavamo a fianco; egli era diretto dalla stessa parte ov’ero diretta io. Gli raccontai le mie ultime vicende, la solitudine in cui ero rimasta, la decisione che avevo presa di raggiunger mio fratello a Tiflis.
— Oh diavolo, diavolo! — esclamò il dottore. — Che cosa mi narra?… Ma lei deve appena conoscerlo quest’Odoardo. Era poco più d’una bambina quando partì.
— Fu nel 66. Avevo cinqu’anni.
— Sicuro. Tra voi altri due ci devono essere almeno quindici anni di differenza.
— Sedici ce ne sono.
— Già…. Odoardo è ormai un uomo maturo…. Come passa il tempo!… Allora era un bel giovinetto…. molto vivace…. forse troppo vivace….
Io non dissi nulla…. Pensavo alle lacrime che quel ragazzo aveva fatto spargere a’ miei genitori.
— Non cattivo però — soggiunse Negrotti. — Era di quelli che hanno bisogno di libertà, che non sanno adattarsi a star nelle file…. Ma una volta che si sono aperta una strada, metton giudizio…. Deve aver girato molto….
— Oh moltissimo!… Non s’è fissato a Tiflis che nell’83.
— E non ha mai fatto una corsa sin qui?
— Mai.
Il dottore rimase un momento soprappensiero; poi mi domandò: — È rimasto scapolo?
— Sì.
— Capisco — riprese il vecchio medico. — Lei non ha altri appoggi, non ha altri parenti….
— Nessuno, nessuno…. Ma — esclamai — sia sincero…. Crede che io stia per commettere un grande sproposito?
— No, cara Elena, no…. È probabile che al suo posto avrei fatto lo stesso anch’io….. A ogni modo, lei è una ragazza coraggiosa; se non si trovasse bene saprebbe tornare nel suo paese.
— Oh! — diss’io…. tentennando la testa — non tornerò più.
E mi salivano le lacrime agli occhi.
Il dottore rallentò il passo, e mi mostrò un portone all’angolo della calle. — Debbo fermarmi qui…. Ma lei non parte mica subito?…
Gli risposi che ritenevo di non partire prima della fine del mese.
— In tal caso spero che ci rivedremo — egli replicò. — Venga da me un dopopranzo…. Anche mia moglie la saluterà volentieri…. Si conoscevano una volta…. quando viveva la sua povera mamma.
Gli promisi d’andare, ma non andrò. Sua moglie è una superba che dopo le nostre disgrazie si degnò appena di guardarci; chi sa con che aria di protezione mi accoglierebbe! Io credo che non rivedrò più nemmeno il buon dottore…. Fu proprio un caso ch’io l’abbia incontrato oggi.
È curioso! Anche senza lasciar la patria, ci son tante cose e tante persone che a poco a poco si dileguano dai nostri occhi e dalla nostra memoria. Eppure, persino di quelle indifferenti, persino di quelle moleste è triste il dover dire: le vedo per l’ultima volta!
Il dottore Negrotti mi mise una pulce nell’orecchio con quella sua domanda se Odoardo sia rimasto scapolo. In vero, chi mi assicura che mio fratello non prenderà moglie più tardi? E allora che vita mi si preparerebbe?
Domenica, 6 giugno.
Venticinquesimo anniversario della morte di Cavour, e festa dello Statuto! Sarà l’ultima a cui avrò assistito. Dopo qualche tempo passato laggiù fra i barbari mi ricorderò appena chi fosse Cavour e che cosa significhi questa che chiamiamo a ragione la festa nazionale. O belle bandiere, belle bandiere tricolori che ho viste oggi sventolar sulle antenne di San Marco, non dovrò vedervi più mai!
Chi sa che anche il colonnello Struzzi, se fosse nei miei panni, in procinto di abbandonar per sempre l’Italia, non proverebbe una commozione uguale alla mia!
Stamane, mentre il cannone tuonava da San Giorgio, il colonnello tuonava dalla sua camera. Era pieno di stizza per lo spreco di polvere che si faceva da un capo all’altro della penisola, s’arrabbiava con sè stesso che aveva potuto prender sul serio simili bambocciate, e perfino dopo essere stato messo in pensione aveva continuato per due o tre anni a vestire in questo giorno la sua uniforme e a sfoggiare le sue medaglie. Ma oramai egli lasciava che lo stato maggiore della territoriale si pompeggiasse nelle sue spalline e facesse batter sui ponti le sciabole; non voleva aver da restituire il saluto militare a quegli ufficialetti da burla venuti su come funghi dai negozi della Merceria e dai caffè della Piazza.
La Gegia, la solita confidente del colonnello, uscì dalla camera intontita: — Creda a me, signorina — ella mi disse — quell’uomo finisce matto.
Non so s’egli finirà matto; è certo che impazzirebbe chi dovesse viver sempre con lui. Ed è certo altresì che il possedere un carattere allegro è la più grande fortuna che ci possa esser concessa.
Oggi è venuta a farmi visita la Gemma Norini, la mia antica condiscepola che ora è maestra comunale e che, nonostante le innumerevoli noie della sua professione, conserva l’umore festevole che aveva quando sedevamo sullo stesso banco della scuola.
Aveva sentito la gran novità e si lagnava, non a torto, che non gliela avessi comunicata io. Ella però non è donna da rancori: era sicura che non sarei partita senza prender congedo da lei. Per bacco! Andavo a Tiflis! Un bel coraggio. Ell’era subito ricorsa ai testi e scommetteva di saperla molto più lunga di me sul paese ove stavo per fissare il mio domicilio.
— Fa conto — diss’io — che ne so molto poco.
— Son qua per illuminarti — ella soggiunse. — A proposito, una nipote della mia direttrice ha il colèra. L’hanno curata coll’ipodermoclisi, e pare che del colèra guarisca, ma muore della cura…. Torniamo a noi. Tu sei capacissima d’ignorare che vai nella Transcaucasia o Russia asiatica occidentale?…
— So all’ingrosso che vado al Caucaso e che il paese appartiene alla Russia…. Ma la vostra scuola è chiusa per questo caso di colèra?
— No, no, la nipote della direttrice non abita mica con lei…. Siamo incaricate di vigilare sulle bimbe, sulla regolarità della loro digestione…. mi capisci…. Ma non distrarmi…. È questa situata (s’intende la Transcaucasia) a mezzodì del Caucaso fra il Mar Nero e il Caspio, e forma un’altra possessione della Russia meno estesa della prima ma più favorita dalla natura….
— Non potei a meno di mettermi a ridere: — Hai imparato la lezione…. E la prima? Qual’è la prima?
— Che prima?
— Oh bella! Quella prima possessione che dovrebb’essere più estesa ma meno favorita dalla natura che la Transcaucasia?
— È giusto…. Non ci avevo pensato…. Ma niente paura…. Ho meco il suggeritore.
La Gemma cacciò la mano in una saccoccia del vestito e ne estrasse un volumetto, il Nuovo compendio di Geografia teorico-pratica del Comba, edizione Paravia: lo aperse alla pagina 243, e dopo averci dato un’occhiata, si picchiò la fronte dicendo: — Stupida! Dovevo immaginarmelo: la prima regione è la Siberia… Ma adesso tieni pur tu il libro e guarda un po’ se non sono sicura del fatto mio.
— Pazzerella! — esclamai. — Conservi sempre la tua memoria?
— Sempre. Sta a sentire; ripiglio dove abbiamo smesso. Essa (cioè questa seconda regione) fu accresciuta nell’ultima guerra delle tre provincie di Kars, Ardahan e Batum, staccate….
— Tira via…. tira via…. Questo m’importa poco.
— Preferisci che ti parli del clima? Ecco: dolce e salubre in generale; il suolo fertilissimo dà i prodotti dell’Europa centrale.
— Veniamo a Tiflis.
— Ti servo subito: Tiflis, con 61 mila abitanti nella Georgia, è la città principale, assai importante per il commercio di transito per l’Europa e la Persia. In questa città, centro di un attivo commercio, risiede il governatore…. Va bene?
— Benone.
— Aggiungerò poi una notizia che ho trovata in un altro libro. La città è posta sul Kur, con sorgenti termali solforose da cui prende il nome, che significa città dalle acque calde….. Nientemeno…. Tutta questa roba nella parolina Tiflis…. Ma che ti pare della mia erudizione?
— Sei un portento….
— La geografia è stata sempre il mio forte…. Invece quella povera Martinetti…. Te ne ricordi?
— Sì. Ebbene?
— La incontrai ieri, e avendole annunziato che vai a Tiflis, disse pronta: In America!
— Brava! E che cosa fa la Martinetti? Non voleva tentare il teatro?
— Sì, studiava il canto al Liceo Marcello, ma non avendolo imparato, lo insegna.
— Sei un capo ameno!… Hai un certo modo di dir le cose…. Dunque la Martinetti dà lezioni?
— Lezioni di canto, a cinquanta centesimi l’una.
La Gemma seguitò a chiacchierare su questo tuono, rievocando gli anni della scuola, facendomi rivivere in mezzo alle antiche compagne, non dimenticandone una, nemmeno quelle che io avevo dimenticate da un pezzo, nemmeno quelle ch’erano morte, o scomparse, perdute oramai nella folla….
— Ah! — dissi, quando la mia amica fu per accommiatarsi, — se potessi condurti meco a Tiflis, come mi parrebbe meno amaro l’esilio! Con te non ci son malinconie….
Ella replicò con la sua aria scherzevole: — Conducimi…. pur che tuo fratello mi sposi…. Che stampo è?
— Te lo scriverò da Tiflis.
— Eh, no — rispose la Gemma, quasi parlando a sè stessa. — Tuo fratello non mi sposa…. È in mezzo alle Georgiane che passano per esser tra le più belle donne del mondo…. Me non mi sposa nessuno…. Sono uno stecco.
— Quest’è vero, ma non è una buona ragione. Non si sposano mica solamente le donne grasse.
— Basta — concluso quello spiritello della Norini — resterò zitella…. Santa Gemma, vergine e martire…. per forza…. Ma già neanche maritarsi come la Lucia Mazzuola per stentare il pane e far due figli all’anno….
— Ih, che spropositi dici!… Due figli all’anno….
— Press’a poco…. Andrai a vederla….
— Senza dubbio…. Eravamo inseparabili…. Adesso si abita ai due capi estremi di Venezia…. Prima di partire però….
— La troverai in mezzo a uno sciame di bimbi…. Oh, addio addio…. e arrivederci, s’intende….
— Sì, arrivederci.
Io dico arrivederci a tutti. E bisognerà pure che uno di questi giorni cominci il mio giro di visite di congedo…. Non ho tempo da perdere.
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La passeggiata di beneficenza iniziata dalla Società del Bucintoro fu oggi una distrazione in mezzo alle tristezze dell’epidemia. I soci, giovani tutti, erano divisi in squadre, e annunziati da squilli di tromba percorrevano, tra un aquazzone e l’altro (poichè il tempo era piovoso), i vari sestieri della città. Li percorrevano per terra e per acqua nei loro agili battelli che paiono fatti apposta per insinuarsi nei meandri de’ nostri rii. Allo squillo delle trombe la gente s’affacciava alle finestre, usciva sulla strada, e chi dava del danaro e chi qualche oggetto di biancheria e di vestiario; anche dalle abitazioni più povere i bimbi e le donne portavano il loro soldo. Curiosa popolazione! Altrettanto pronta a donare quanto a stender la mano!
Allorchè i questuanti passarono da noi, il colonnello Struzzi non era in casa. Non era nemmeno in paese; era a Padova per non tornare che alla sera con l’ultima corsa, a pagliacciata finita, come egli disse alla Gegia.
Lunedì sera. 7 giugno.
Mi pare che la signora Celeste avrebbe dovuto avvisarmene. De’ suoi tre inquilini io son la sola ch’ella tiene ordinariamente a dozzina, ma oggi c’era a desinare con noi anche il professore Verdani, e sembra che ci sarà per tutto il tempo che dura il colèra.
La signora Celeste, che ha una tenerezza particolare pel giovine matematico, non capiva in sè dalla gioia. — Ce n’è voluto — ella diceva scodellando la minestra; — ce n’è voluto a persuadere il nostro professore a cambiar per qualche settimana i suoi pranzi di trattoria con un po’ di cucina casalinga…. E scommetto che non se ne sarebbe fatto nulla senza le inquietudini della sua mamma…. Per me, lo confesso, oltre che l’onore, è una grande soddisfazione…. Quell’altro di là…. — e la signora Celeste alludeva al colonnello — quell’altro di là se vuol crepare che crepi…. Anzi, non lo vorrei alla mia tavola per tutto l’oro del mondo…. Un accattabrighe, un basilisco….; ma il nostro professore è una perla e lo considero uno di famiglia….
— Grazie, signora Celeste, grazie — biascicava il professore sforzandosi invano di porre una diga a quel torrente di parole.
La signora Celeste si appellava a me, si appellava a una sua nipote ch’è spesso sua commensale e ch’era stata invitata da lei anche oggi. Noi potevamo testimoniare s’ella aspettava che il professore fosse presente per discorrere di lui in questi termini.
Io che non amo queste interpellanze a bruciapelo me la son cavata con qualche monosillabo, ma la Giulia Sereni (ch’è la nipote) spiegò una parlantina maravigliosa tanto per confermar le cose dette dalla zia quanto per aggiungerne altre di suo…. Anch’ella aveva una grande ammirazione pel professore, una così brava persona e così modesta… Una persona di cui non si sentiva dir che del bene da tutti.
Evidentemente Verdani era sulle spine, e pare che la signora Celeste se ne sia accorta, perchè fece segno alla Giulia di smettere. Allora la ragazza chinò in atto verecondo gli occhi sulla zuppiera e si risolvette a mangiar la minestra.
La Giulia Sereni, ch’è direttrice d’un giardinetto froebeliano, deve aver circa la mia età, piuttosto meno che più, e non è mica brutta, tutt’altro; anche di modi, quando la si trova a tu per tu, è simpatica; ma se c’è gente ha il vizio di voler far la ruota come il pavone. Sarà forse un vizio comune. Noi usiamo montar sui trampoli per parere più alti.
Secondo me, la Sereni sbaglia strada, ma non c’è dubbio ch’ella aspira a far colpo sopra ogni nuova persona che le accade incontrare. Studia i movimenti, le parole, i sorrisi, e non si lascia sfuggire nessuna opportunità di mettere in mostra il suo mediocre corredo di cognizioni. Oggi ha ripetuto a sazietà che non c’è al mondo un gusto maggiore di quello d’istruirsi, e ha soggiunto, guarda che combinazione! che a lei sarebbero piaciute immensamente le matematiche…. se il coltivarlo non fosse stato superiore alle forze di una donna…. Ma quei risultati positivi, quella certezza assoluta….
Il professore che fino a quel momento aveva taciuto gettò dell’acqua fredda su questa fiamma d’entusiasmo. — Eh, cara signorina, i recenti progressi della scienza non ci permettono più nemmeno di esser sicuri che due e due fanno quattro.
Non so se Verdani volesse scoccare un epigramma alla sua interlocutrice o alla scienza; so che la Giulia ne rimase un po’ sconcertata e che la signora Celeste colse il destro per tirare il discorso sopra un tema più alla portata della propria intelligenza. E deplorò la stramba idea che m’era venuta di andar tra i selvaggi, in un paese di cui ella non riusciva mai a rammentare il nome.
— Tiflis. Tiflis — saltò su la Sereni, beata di alludere per incidenza alla Colchide, al Vello d’oro, agli Argonauti, a Giasone e a Medea e di fare altre citazioni erudite per uso del professore che parve divertirsene mediocremente. Allora la nipote della mia padrona di casa lasciò la mitologia per la didattica e domandò l’opinione di Verdani sul metodo Froebel…. Ma Verdani confessò che il metodo Froebel lo conosceva appena di nome.
Se, come io mi son fitta in capo, la Sereni, d’accordo con la zia, considera il professore quale un marito possibile e s’adopera per conquistarlo, bisogna convenire che le prime avvisaglie non furono fortunate. Vedremo in seguito…. Che la Giulia sia una donna adattata pel professore, questo no e poi no. Del resto, a me la cosa non deve importare nè punto, nè poco; anzi se la Sereni riesce a sposarsi ne sarò contentissima per lei…. Ne ha tanta voglia!
Mercoledì, 9 giugno.
Oggi sono passata a informarmi d’una vecchia amica di mia madre, la signora Della Riva, ch’è malatissima. Mi ricevette la figliuola, l’Augusta, un’altra delle mie condiscepole. Povera Augusta! Son quindici notti che non va a letto, son quindici notti che lascia appena per pochi minuti la camera di sua madre. E non c’è speranza, pur troppo, non si tratta che di prolungare la vita per alcuni giorni, forse per alcune ore. Nel dirmi così, l’Augusta appoggiò la testa sulla mia spalla, e mi ricordò il tempo in cui le nostre due mamme, sane e robuste tutt’e due, ci conducevano insieme ai Giardini. Anche la mia amica resterà molto sola; non ha che un fratello il quale viaggia spessissimo per affari. È vero ch’ella crebbe al fianco di questo fratello, è vero ch’ella lo conosce a fondo, è vero ch’ella non lascia il proprio paese…. Il suo caso è ben diverso dal mio. All’annunzio della mia prossima partenza pel Caucaso, ella non potè trattenere un’esclamazione dolorosa. — Fin laggiù te ne vai! — Tu non ci anderesti? — io chiesi. Ella rispose con enfasi: — Con un uomo a cui volessi bene, andrei fra gli Ottentotti, ma se no…. — S’interruppe, e temendo di essere stata troppo brusca, troppo recisa, soggiunse: — A ogni modo, chi sa? Bisogna trovarsi nelle circostanze…. Ci rivedremo, non è vero?
— Sì, sì.
Mi mossi di là con un’impressione singolare nell’animo. Se v’è una figliuola buona, affettuosa, sollecita è certo l’Augusta; se v’è dolore sincero è il suo…. Eppure, o io m’inganno, o l’acerbità di questo dolore è temperata in lei da qualche gioia, da qualche speranza segreta; persino il suo viso pallido e smunto mi apparve oggi trasfigurato…. In collegio, rubiconda e fiorente, era proprio bruttina, più brutta di me che non sono una Venere; oggi, a’ miei occhi almeno, era bella, e giurerei che sarebbe tale anche agli occhi degli uomini…. Dicono che l’amore soltanto opera di questi prodigi; ch’ella ami, che sia amata?
A casa m’aspettava una gradita sorpresa. La Gegia mi consegnò un libro francese lasciatole per me dal professore Verdani. S’intitola: Le Caucase et la Perse, e ha un segno al principio del capitolo che tratta di Tiflis — Ne ho già scorso alcune pagine…. La descrizione che vi si fa del mio futuro soggiorno è meno sconfortante ch’io non credessi; tuttavia quanto stenterò ad avvezzarmici, quante volte fra quei Georgiani, quegli Armeni, quei Persiani e quegli Europei semibarbari correrò col pensiero al mio popolo arguto e gentile, al molle e melodioso dialetto delle mie lagune!
L’attenzione usatami dal professore mi fece molto piacere e ne lo ringraziai vivamente a ora di pranzo. — Non vale la spesa di ringraziarmi per così poco — egli disse: — se il libro non appartenesse alla biblioteca della Scuola, la pregherei di portarselo seco: però è libera di tenerselo fino al giorno della sua partenza.
Sarà una pura combinazione, ma è un fatto che, senza la Sereni, ce la passammo più allegramente. Il professore aveva dimesso ogni sussiego, e discorreva di tutto con la facilità e col garbo d’un uomo altrettanto ricco d’istruzione quanto scevro di pedanteria. Capisco che la sua timidezza è più apparente che reale; è la timidezza d’un uomo non avvezzo a perdere il suo tempo nei salotti eleganti, nè a sciupare il suo ingegno nelle giostre di spirito. Dev’essere un insegnante modello; ha la parola chiara, sobria, precisa, di quelle che scolpiscono l’idea….
Verso di me egli fu cortesissimo anche oggi, e nell’ipotesi assai verosimile ch’io vada a imbarcarmi a Trieste per evitare le quarantene, mi offerse una lettera per un parente di sua madre che abita in quella città e potrebbe venirmi a prendere alla stazione e accompagnarmi fino a bordo del vapore del Lloyd, e raccomandarmi in particolare al capitano.
— Bah! — disse la signora Celeste, — io spero che la nostra Elena resti con noi.
— O come? — esclamai.
— Giurerei che suo fratello ha mutato idea…. Vede che non le scrive ancora.
— Cioè la lettera non può essere ancora arrivata — io soggiunsi. — Se mutasse idea sarei in un bell’impiccio…. Dopo aver preso una risoluzione di questa natura, il meglio è di poterla mandar presto ad effetto.
— Ha quasi furia di piantarci…. Eppure si persuada che il suo è stato un colpo di testa…. Una ragazza de’ suoi meriti avrebbe trovato non uno ma mille modi di vivere onoratamente a Venezia…. Adesso, si capisce, col colèra tutto è difficile…. ma non ha mica da durar molto questa maledizione.
Io ero troppo commossa da replicar nulla. Davanti alla gente faccio la disinvolta, dico che vorrei esser fuori di questo pensiero, giunta ormai alla mia destinazione; ma poi dentro di me provo un affanno, uno struggimento!…
Il professore fece un’osservazione giusta. Egli dichiarò che, secondo lui, con un po’ di buon volere si può trovarsi tollerabilmente dappertutto, giacchè noi portiamo in noi stessi il segreto della nostra felicità o infelicità.
— Dunque — domandò la signora Celeste — lei approva il partito preso dalla signorina?
— Non ho il diritto di approvarlo nè di disapprovarlo — rispose Verdani; — le auguro e spero ch’ell’abbia sempre a lodarsene.
Era un’idea cortese, cortesemente espressa. Ma noi siamo incontentabili. Avrei preferito che il professore mi biasimasse…. Perchè?… Non lo so neanch’io.
Giovedì, 10 giugno.
Grande scompiglio nelle vicinanze. C’è un caso di colèra in una calle che sbocca nella nostra. Una donna, moglie d’un gondoliere, fu colta iersera dai primi sintomi della malattia e oggi è in fin di vita. Non volle lasciarsi trasportare all’ospedale; quindi la posero sotto sequestro, isolata dal rimanente della famiglia. Il marito viene ogni tanto dal suo traghetto a prender notizie, e forse por ingannare il dolore è sempre ubbriaco, e urla contro il municipio, contro i signori e contro i medici; i figliuoli son dispersi per la strada, confusi con altri monelli della parrocchia. Noi sentiamo dalla finestra i commenti romorosi delle donnicciuole. Come il solito, l’inferma s’è procurata lei stessa il suo male. Ha mangiato questo, ha mangiato quello; un piatto d’insalata verde secondo siora Beta e una granseola secondo siora Barbara; ha camminato per la casa a piedi scalzi, ha bevuto sei bicchieri d’acqua di fila. Dopo di lei la colpa ce l’ha il dottore ch’è venuto tardi, che non le ha permesso di prendere il sal di canale ch’era la sua medicina ordinaria, indicatissima pei disturbi di visceri, che l’ha costretta a bevere alcune goccie di quel liquore denso, nerastro che chiamano laudano, che finalmente l’ha spaventata con quella maledetta denuncia e col sequestro.
La signora Celeste la quale finora non aveva mostrato d’esser paurosa, oggi è in un’agitazione estrema, un’agitazione che le fece persino andar di traverso la parrucca. Una scena comica nella sua violenza successe fra lei e il colonnello attraverso il buco della chiave. Ella pretendeva disinfettargli la camera e tenendo in mano una vaschetta d’acido fenico diluito nell’acqua picchiò due volte all’uscio del suo amabilissimo ospite.
— Chi è? — ruggì l’orso dal di dentro.
— Sono io…. Mi permette d’entrare?
— Entrare?… Perchè?… Che cosa vuole?…
— Ma…. Glielo dirò meglio se apre….
— Non apro…. Dica prima….
— Ecco…. vorrei…. spargere un po’ d’acido feni….
Il colonnello non le lasciò terminar la parola.
— Via subito…. Ah vorrebbe appestarmi la camera…. Non ha già appestato abbastanza la casa?
— Sia ragionevole, signor colonnello — insisteva la signora Celeste. — Lo sa che abbiamo il colèra a due passi?
— Che colèra?… Non c’è colèra…. E se c’è, tanto meglio….
— Signor colonnello…. Faccia il piacere.
E la signora Celeste tentò girare la gruccia dell’uscio.
Ma il colonnello si precipitò alla difesa, tuonando come tutta una batteria di cannoni: — Vada via, e presto, o vengo fuori io col revolver….
— Madonna Santa, aiuto! — gridò la signora Celeste sbigottita. — E corse a rifugiarsi nella mia stanza, tacciando cader la vaschetta dell’acido fenico che si sparse pel corridoio e avrà certo distrutto una quantità immensa di microbi.
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Quest’episodio, illustrato dalla signora Celeste con gran lusso di gesti e suoni imitativi, fece le spese del pranzo, e tenne di buon umore anche il professore Verdani. Però a due riprese la nostra padrona di casa trovò che si scherzava troppo sul pericolo ch’ella aveva corso. E il pericolo durava sempre, poichè, il colonnello era suo inquilino, e un giorno o l’altro poteva saltargli il ghiribizzo di compier davvero un eccidio…. D’altra parte ella non osava licenziarlo…. Era un uomo capace di non voler andarsene con le buone, e allora? Ah chi le aveva messo in casa il colonnello Struzzi le aveva fatto un bel servizio!… È vero che pagava puntualmente e pagava bene…. ma tant’era dar alloggio a Satanasso in persona!
Foss’effetto dell’emozione della giornata o d’altro, subito dopo desinare la signora Celeste principiò a piegar la testa sul petto e a chiudere gli occhi, e non tardò ad addormentarsi profondamente sulla seggiola. Ell’era in questo stato quando la Gegia entrò con la macchina da caffè.
— È peccato svegliarla — diss’io a bassa voce. — Il caffè lo farò io stessa. Chi sa che intanto non si desti da sè…. Si fida della mia abilità? — chiesi al professore.
— Per bacco! — egli rispose celiando; — vuole che non mi fidi?
— Già, lei non se ne intende, — soggiunsi nel medesimo tuono. — Uno scienziato…!
— Crede proprio che gli scienziati non sappiano che le cose inutili? — egli replicò. — S’inganna a partito… A fare il caffè con la macchina ho una speciale attitudine.
— Davvero…. Quasi quasi le cederei il posto…. Ma no, non mi fido io…. Invece, m’aiuti…. Scusi, dia qua i fiammiferi.
Ripensandoci su, stento a capacitarmi d’aver trattato con questa familiarità un uomo grave e studioso, un uomo col quale pochi giorni addietro non scambiavo che un freddo saluto; è certo però ch’egli non mostrava di trovar nulla di strano ne’ miei modi, e mi discorreva alla sua volta come si discorre a un vecchio camerata. La confidenza somiglia a un fiore di campo che sboccia da sè, inavvertito, senza cure di giardiniere.
Il professore mi parlò delle sue faccende domestiche; della sua infanzia travagliata, del padre mortogli quand’era ancora bambino, e della sua mamma rimasta con una magra pensione la quale doveva bastare a lei e a due figliuoli. Uno di questi, il maggiore, le recò pochi fastidi e cominciò a guadagnarsi il pane a dodici anni, ma il più piccolo (ed era lui quello) avea la passione degli studi, e la fece spendere e tribolare. Ma dalle labbra dell’angelica donna non uscì mai una lagnanza; tutte le privazioni le parevano lievi per secondare i ghiribizzi del suo dottore in erba…. Negarsi da sè le cose più necessarie, vendere gli oggetti più cari…. oh in verità, anche questi fanatici della scienza sono grandi egoisti!
— Però quando riescono — io dissi — sono egoisti che compensano largamente i sacrifizi che hanno costato.
Verdani tentennò la testa. — Non creda…. Restano egoisti…. O se fanno anch’essi dei sacrifizi non li fanno già per quelli che s’eran sacrificati per loro; li fanno per la scienza, la sirena che li affascina…. E poi chi può dire d’esser riuscito?… Ah badi, badi, signorina, spenga.
Il caffè, bollendo e gorgogliando era già salito fino all’orlo del recipiente di cristallo: il lucignolo che avrebbe dovuto spegnersi da sè ardeva ancora, e io non me n’ero accorta. Prima ch’io potessi riparare alla mia dimenticanza, il tappo, spinto dalla forza del vapore, fu slanciato in aria e una parte del caffè si rovesciò sulla tavola. Non so come nessuno abbia riportato delle scottature. Ma la piccola esplosione svegliò in sussulto la signora Celeste che gridò esterrefatta; — Misericordia! Il colonnello!
Quand’ella ebbe visto di che si trattava non tardò a ricomporsi ed esclamò in aria di persona liberata da un incubo: — Ah! non era che la macchina…. Dunque non si prende più il caffè per questa sera?
— Ce ne sarà rimasto abbastanza da riempire una tazza — risposi, guardando mortificata i segni del recente disastro; — una tazza da dividersi fra lei e il professore…. Io non merito nulla.
— Neppur io — protestò Verdani. — Son io che con le mie chiacchiere ho distratto la signorina Elena.
Ma la signora Celeste dichiarò che la maggior colpevole era lei. — Non dovevo prender sonno…. Un giovine e una giovine quando sono a tu per tu hanno da far di meglio che badare a una macchina da caffè.
Questo scherzo di cattivo genere mise in impiccio il professore e me e ci guastò la serata. Il dialogo si trascinò stentatamente per una mezz’ora; poi ognuno se ne andò dalla sua parte.
Venerdì, 11.
Giornata triste. Non chiusi occhio in tutta la notte. Avevo caldo, avevo freddo, avevo i nervi eccitati al massimo grado. Le parole insignificanti della signora Celeste mi suonavano sempre all’orecchio, come un avvertimento che la mia intimità col professore doveva finire appena nata. È destino; nessuno crederà mai ad un’amicizia semplice, schietta, franca tra un uomo e una donna.
Come saluto mattutino la Gegia, entrando in camera, mi disse: — La colerosa qui vicina, è morta.
Me lo aspettavo; eppure mi fece un certo senso….
Più tardi sentii una gran scampanellata e la voce del postino che gridava dalla strada: — Elena Givalda! — il mio nome!
Mi si rimescolò il sangue. Era senza dubbio la lettera di Odoardo.
No, non era quella…. Era un foglio listato di nero, una partecipazione funebre, con l’indirizzo mio in una calligrafia che non m’era nuova. La signora Emilia Dalla Riva morì ieri a mezzogiorno. Avevo visto l’Augusta mercoledì e sapevo che una catastrofe era inevitabile, ma non la credevo imminente. I funerali si faranno domattina alle 9 antimeridiane, in chiesa San Salvatore. Ci andrò.
È ricomparsa a pranzo la Giulia Sereni e l’avremo per commensale fintantochè non sarà tornata sua madre che si recò a Verona a visitare una figliuola da parto. La Giulia ha ricominciato a far la smorfiosa e la saccente col professore. Pare uno scolaretto vicino al maestro, ma uno scolaretto che ci tiene a farsi valere come il primo della classe. Verdani s’annoia, è chiaro che s’annoia: tuttavia, non volendo essere assolutamente sgarbato, bisogna bene ch’egli si occupi un poco di chi si occupa tanto di lui.
Questa benedetta lettera d’Odoardo viene o non viene?… Quanto pagherei d’essere già partita!
Sabato notte.
Ero così stanca, così turbata, che mi son messa a letto alle nove, rinunziando per oggi ad aprir questo libro. Ma dopo inutili sforzi per pigliar sonno dovetti alzarmi di nuovo, e mentre a San Marco suona la campana di mezzanotte, io son qui al tavolino, assorta in questa cura giornaliera, che è divenuta quasi una necessità del mio spirito; tanto può l’abitudine!
La lettera d’Odoardo…. Ma procediamo con ordine.
Prima delle nove ero in chiesa San Salvatore per assistere ai funerali della signora Dalla Riva. Vi assistetti incognito, come si dice dei principi, seduta in disparte, col viso coperto da un fitto velo, impassibile in apparenza, ma forse più commossa delle dieci o dodici signore che, in lutto profondo, sfoggiavano il loro dolore ufficiale nei posti riservati ai parenti e agli amici. La cerimonia, semplicissima, durò poco, e alle dieci e un quarto ero già a casa.
La signora Celeste mi venne incontro con una lettera in mano.
— È per me? — chiesi, appoggiandomi alla ringhiera del pianerottolo.
— Per lei…. Una lettera con tanti bolli.
— Dia qui, signora Celeste, dia qui — ripigliai ansiosa.
— Temo che sia quella ch’ella aspettava — soggiunse la mia padrona di casa…. — Almeno suo fratello le scrivesse per mandar in fumo quello sciagurato viaggio!
Non le badai, ma corsi a chiudermi nella mia camera con la lettera, di cui avevo riconosciuto il carattere.
Poche righe, in stile commerciale. Lieto della mia risoluzione, mio fratello mi consigliava d’imbarcarmi a Trieste sul vapore del Lloyd l’ultimo o il penultimo venerdì di questo mese. Imbarcandomi a Venezia avrei dovuto scontare la contumacia; ritardando troppo si correva il rischio che il governo turco mettesse le quarantene anche per le provenienze da Trieste. A ogni modo telegrafassi al momento dell’imbarco, dirigendo il dispaccio a Costantinopoli presso il Consolato italiano. Inchiuso nella lettera c’era un chèque di mille franchi su un banchiere di qui, a vista.
La mia paura che Odoardo non mi rimettesse che la somma strettamente necessaria pel viaggio era, come si vede, affatto infondata. Cinquecento lire mi bastano ad esuberanza per andar fino a Costantinopoli; le altre cinquecento potrò spenderle qui nel modo che stimerò più opportuno. Non ho mai avuto tanti quattrini disponibili.
Quanto pagherei d’esser già partita! — io scrivevo l’altro ieri su queste pagine…. Sì, sì, desidererei d’esser partita, d’essere arrivata a Costantinopoli, a Tiflis, in capo al mondo…. Sono, in complesso, d’un umore adattabile, finirò col rassegnarmi al mio nuovo soggiorno e al mio nuovo stato…. Ma questo periodo d’attesa m’è intollerabile.
Eppure non potrò imbarcarmi che il 25. Ho ancora troppe cose da sbrigare, ho troppe persone da vedere perchè mi sia dato essere a Trieste per venerdì prossimo.
La signora Celeste, piena di curiosità, picchiò all’uscio con un pretesto qualunque.
Io mi ricomposi in fretta, e senz’aspettare le sue interrogazioni dissi: — Cara signora Celeste, dunque ci lasceremo prima del 25.
Ella rimase sbalordita. — Ma siamo già al 12.
— Eh, come si fa?
Proprio la signora Celeste non sapeva darsene pace. Ero in casa sua da poco tempo, ma le pareva di conoscermi da dieci anni almeno, e aveva preso a volermi bene come a una figliuola…. La mia mancanza le avrebbe lasciato un vuoto, un vuoto!… Pazienza se avesse potuto esser tranquilla sul mio avvenire, se mi avesse vista appoggiata a qualcheduno del cui affetto per me non fosse lecito dubitare; ma questo fratello, che per anni e anni non s’era neanche rammentato ch’io esistessi, le inspirava una ben scarsa fiducia…. Era un gran salto nel buio quello ch’io facevo.
— È inutile, signora Celeste — io risposi. — Sono in mano della Provvidenza. Ormai bisogna ch’io segua il mio destino.
Ella soggiunse qualche parola sulla mia ostinazione, e se ne andò a malincuore.
— Coraggio — diss’io fra me. — Coraggio!
E cercai di raccogliere i miei pensieri, di fare un po’ di programma pei dieci o dodici giorni che avevo ancora da restare a Venezia, di stabilire a quali tra lo mie amiche dovevo lasciare un ricordo, quali tra i libri della mia piccola biblioteca dovevo portar meco, quali oggetti indispensabili dovevo comperare prima di mettermi in viaggio. Ma le idee più semplici mi s’ingarbugliavano nella testa, e giravo su e giù per la stanza a guisa di smemorata, aprendo ora un cassetto ora l’altro del mio armadio e domandandomi perchè lo avessi aperto, accingendomi a scrivere un nome, a fare un’annotazione, e rimanendo lì col lapis tra le dita senza poter richiamare alla mente il nome che volevo scrivere e l’annotazione che volevo fare.
Dopo qualche ora passata così mi risolvetti a uscir di casa e a recarmi dall’Angusta Dalla Riva.
— Grazie d’esser venuta — ella mi disse gettandomi le braccia al collo. Poi mi prese per mano e mi fece sedere su un canapè, accanto a lei…. Dopo i primi baci, dopo le prime parole che si scambiano in queste occasioni, ci fu, come accade sovente, un breve silenzio. Ella teneva gli occhi bassi; io la guardavo, e l’impressione provata nella mia ultima visita si rinnovava più vivace, più intensa. Non era possibile ch’io m’ingannassi per la seconda volta; in quel suo viso pallido che serbava le traccie delle veglie affannose, in quel suo viso atteggiato a un dolore sincero balenava ogni tanto come un raggio di luce, come la manifestazione timida, inconscia d’una gioia che si vergognava ancora di sè, ma che, invano rattenuta, saliva saliva dal fondo del cuore a raddolcire le lacrime, a frenare i singhiozzi.
— C’eri stamattina in chiesa? — mi domandò l’Augusta con qualche peritanza.
— Sì che c’ero…. Non ero però nei posti riservati.
— Dunque non hai visto nessuno? Nessuno ti ha parlato di me?
— Nessuno.
— Meglio così — ella soggiunse. — Meglio che tu sappia tutto dalla mia bocca…. E prima di giudicarmi, aspetta….
— Giudicarti? Ma tu, tu che sei tanto buona, avresti una colpa sulla coscienza?
— Non lo so…. So che ho perduta ier l’altro la mia mamma, la migliore delle madri, so che non dovrei pensare che a questo, che non dovrei veder sulla terra un raggio di luce…. e che invece….. oh mi pare un’enormità….
— Invece tu ami qualcheduno? — interruppi, chinandomi verso di lei con simpatia.
— Come hai capito?
Io sorrisi. — Eh, non ci vuol mica molto…. Ed è questo il tuo gran delitto?
— No, forse l’amar qualcheduno non è un delitto, nemmeno in un momento simile; gli è che da tre giorni soltanto ho la certezza d’essere amata, e questa certezza mi rende felice…. Ecco la profanazione…. Felice, con la mia mamma appena sepolta…. Però — soggiunse l’Augusta, impaziente d’attenuare il proprio fallo — però la mamma prima di morire fu messa a parte di tutto, e l’idea di affidarmi ad un uomo onesto…. un uomo a cui non avrei creduto mai di poter aspirare…. consolò la sua agonia.
La storia m’interessava davvero, e sollecitai l’Augusta a raccontarmi tutto.
Come render l’accento caloroso, appassionato, sincero che mi fece apparir così efficace, così eloquente la narrazione della mia amica?
Ella disse a un dipresso così: — Sono alla vigilia di sposare il dottor Val Sabbia, il bravo medico che a trentacinqu’anni è già primario dell’Ospitale e possiede una delle migliori clientele della città. Val Sabbia era stato sopracchiamato da Ranioli, il nostro vecchio dottore, ed essendosi Ranioli infermato subito dopo il consulto, cedette alle nostre preghiere e rimase lui stesso alla cura…. Non si può avere un’idea di ciò ch’egli ha fatto per la mamma. Senza dubbio ella lo aveva ammaliato co’ suoi modi soavi, con la sua rassegnazione angelica. Veniva di giorno, veniva di sera, veniva spontaneamente anche nel cuor della notte. A me diceva qualche volta che la mia mamma gli ricordava la sua mamma e che io gli ricordavo una sorella, maritata adesso a Firenze e nata per far la suora di carità…. Dio mio! Io non facevo più di quello che ogni figliuola avrebbe fatto al mio posto…. Mio fratello, che aveva la famiglia sulle spalle e non poteva trascurar gli affari, era ogni momento fuori di casa, fuori di città; così ci trovavamo spesso soli, il dottore ed io, soli accanto al letto dell’inferma, soli nell’aspettazione d’una crisi, soli durante un periodo di quiete ingannevole, desolati tutti e due, egli dell’impotenza della sua dottrina, io dell’impotenza del mio affetto… Erano lunghi, lunghi silenzi…. Di tratto in tratto i nostri occhi s’incontravano e io sentivo un fuoco corrermi per le vene…. Non osavo chiedere a me stessa se l’amavo; ma stavo così volentieri vicino a lui, ma il cuore mi balzava in petto alla sua scampanellata, al suono del suo passo, della sua voce…. In quanto a sperare ch’egli mi amasse, oh Elena, te lo giuro, non ci pensavo nemmeno…. Non avevo il diritto di esser tanto ambiziosa…. Da tre settimane era impossibile illudersi sullo stato della mamma, ed ella non s’illudeva…. Mercoledì sera, la sera del giorno che tu fosti da me, ella disse: — So bene che non c’è rimedio… Ma muoio con una gran riconoscenza per quelli che m’hanno assistita. — Strinse la mano a me ed a Val Sabbia e mormorò: — Come siete buoni! — Quella notte Umberto non volle lasciarci. Temeva un attacco più violento del solito e rimase su una poltrona nell’anticamera. L’attacco non venne; verso l’alba la mamma dormiva abbastanza tranquilla. — Vada a riposarsi, dottore — io gli dissi — e… grazie. — Egli parve disposto a seguire il mio consiglio e s’avvicinò all’uscio… Ma si fermò a un tratto, senza prendere il cappello ch’io gli porgevo. Aveva l’aria di un uomo che non sa cominciare un discorso…. Impacciato, lui, davanti a me?… Io stavo lì, immobile, col cappello fra le mani…. Egli si passò il fazzoletto sulla fronte, e principiò: Crede proprio che la sua mamma m’abbia in buon concetto? — Lo guardai stupita. — Che domanda mi fa? In che altro concetto potrebbe averlo dopo le prove…? — Umberto mi troncò la frase in bocca. — E crede che se le domandassi anch’io una prova…. una prova di fiducia, grande, illimitata…. me l’accorderebbe? — Ma per lei — esclamai — la mamma farebbe qualunque cosa…. ne son sicura…. Però, nella sua condizione presente, che cosa può fare? — Invece di rispondere, Val Sabbia seguitò a interrogare. — Ed ella, signorina Augusta, che opinione ha di me? — Dio, Dio, quale tortura!… Io non capivo più niente…. Ossia, credevo di capire…. Ma se poi m’ingannavo…. che colpo! — Non le domando l’opinione ch’ella ha di me come medico — egli ripigliò per meglio chiarire il suo concetto — ma come uomo. — Oh dottore — io balbettai — che può importarle dell’opinione di una povera ragazza quale io mi sono? — Molto me ne importa — egli replicò enfaticamente.
— Ma la voglio schietta, sincera. — A questo punto egli parve colto da un dubbio. — È una strana pretesa la mia, non è vero? Infatti, se anche pensasse male di me, a me non lo direbbe. — Non ne potevo più. Il mio cuore traboccava. — Ma perchè mi tormenta? Come può venirle in capo ch’io pensi male di lei? Non vede che se fosse così io sarei una creatura spregevole, indegna di quel po’ di stima ch’ella mi accorda? — La fisonomia grave d’Umberto s’illuminò tutta. — In tal caso — egli riprese — se appena la sua mamma si sveglia, io andassi da lei e la pregassi di concedermi in isposa la sua figliuola, e se la sua mamma accogliesse favorevolmente la mia richiesta, lei, Augusta, non direbbe di no?…
Oh Elena mia, che momento fu quello! Era possibile? Non era un’allucinazione dei sensi? L’uomo che avevo visto paziente, sagace, affettuoso, prodigar mille cure all’essere più caro che avessi al mondo, l’uomo che adoravo in segreto e di cui cento ragazze nobili e ricche sarebbero state superbe di portare il nome, quell’uomo presceglieva me, la più umile delle sue clienti, me, povera, oscura, senza nessun fascino di bellezza e d’ingegno!… La commozione mi tolse la parola, ma sembra che i miei sguardi esprimessero ciò che le mie labbra, non sapevano esprimere, perchè Umberto mi cinse delle sue braccia, e mi susurrò nell’orecchio: — Dunque, sì? — Di nuovo mi mancò la voce e dovetti contentarmi di fare un cenno affermativo col capo. — Mi ami? — egli proseguì. Con uno sforzo supremo riuscii a liberarmi da quella specie di paralisi che mi annodava la lingua e risposi: — Con tutta l’anima mia…. — Il resto già te lo immagini. T’immagini con quale entusiasmo la povera mamma accondiscese alla domanda di Umberto…. troppo entusiasmo forse, perch’ella era così debole e l’eccesso della commozione accelerò la sua fine. Pur serbò fino all’ultimo istante la lucidezza del suo spirito e con gli occhi già spenti e con le labbra già fredde ringraziava Umberto e mormorava il nome di lui e il mio…. Povera mamma! Povera mamma!
L’Augusta nascose la faccia sul mio petto e lasciò scorrer le sue lacrime…. Erano lacrime di dolore per la sciagura che l’aveva colpita, erano lacrime di gioia per la felicità che l’aspettava? Che mistero è la vita e che diverse correnti la solcano nella stessa ora, nello stesso minuto! Senza dubbio l’Augusta era altrettanto sincera nel suo dolore quanto nella sua gioia, e gioia e dolore si riflettevano nel suo viso, si ripercotevano nelle sue parole…. Io l’assicurai che ella non aveva nulla a rimproverarsi e che se il cielo aveva voluto mandarle una gran consolazione nei giorni dell’angoscia ella doveva accettarla con animo riconoscente e senza tema di offendere il culto delle memorie…. Ma in verità io predicavo a una convertita, e non potevo a meno di pensar fra me e me alla singolarità di questa visita ch’era principiata come visita di condoglianza e finiva come visita di congratulazione.
L’Augusta mi mostrò il ritratto del suo sposo. È un bell’uomo dalla fisonomia aperta, intelligente.
— E quando le nozze? — io chiesi.
— Di qui a sei mesi disse l’Augusta. — Avrei preferito compier l’anno di lutto, ma Umberto desidera spicciarsi e mio fratello gli dà ragione…. Che peccato che tu non debba essere qui!
— Ti manderò i miei auguri da Tiflis — soggiunsi nell’accommiatarmi.
Ah, la vita è un mistero, ma il cuore umano è mistero ancora più grande. Mi staccai dall’Augusta con l’animo riboccante di simpatia, lieta della sorte che l’era toccata; eppure di mano in mano che rifacevo la strada sentiva dentro di me qualcosa d’acre, d’amaro che modificava le mie impressioni. Mi pareva che tante altre meritassero d’esser felici come l’Augusta e più dell’Augusta, non capivo perchè ella dovesse essere una preferita della fortuna. E sebbene arrossissi d’un sentimento a cui non volevo dar nome d’invidia e a cui non avrei saputo quale altro nome dare, non mi riuscì disperdere le nuvole che s’erano addensate sul mio spirito.
A pranzo fui sgarbata, irritabile, pronta a interpretar tutto sfavorevolmente. M’ero fitta in capo che l’annunzio positivo della mia partenza dovesse recare una gran soddisfazione alla Giulia Sereni, e guardandola con questa idea preconcetta credevo realmente di scorgerle sulle labbra un risolino di trionfo. Non ch’io fossi una rivale; ero un testimonio incomodo delle arti con cui ella tentava accalappiare l’ottimo professore. E lui? Oh gli uomini! Anche i migliori son vanitosi, e a forza di lodarlo, di lisciarlo, di corteggiarlo, la Giulia raggiungerà il suo intento…. A me oggi egli rivolse alcune parole cortesi di rammarico; poi nulla più. Invece la signora Celeste non la finiva con le sue lamentazioni, e lasciò perfino cader due grosse lacrime nella minestra.
Dio buono! Quante pagine ho riempiuto! E sono già le tre del mattino. Bisogna smettere.
Martedì, 15 giugno.
Nè ieri, nè ier l’altro non ho potuto metter penna in carta, tanto fui occupata tra visite, spese e brighe d’ogni maniera. Vidi domenica anche la Lucia Mazzuola, quella di cui la Norini dice che partorisce due volte all’anno. È innegabile che il suo esempio non invoglia al matrimonio. La trovai in mezzo a cinque marmocchi e incinta per giunta. E com’è mutata! Era tanto bellina, e adesso ha perduto gran parte dei suoi capelli, ha gli occhi smorti, le carni flosce e il colorito terreo. Ha pei suoi bimbi una tenerezza rabbiosa che si sfoga sgridandoli, sculacciandoli, urlando come un’ossessa a ogni birichinata che fanno, a ogni pericolo che corrono. — Non ne posso più — ella mi disse — non ho un’ora di pace, nè di giorno nè di notte…. E si stenta a vivere, sai, co’ bei guadagni che ci sono…. Pensare che ci son di quelli che han paura del colèra…. Per me, se mi capitasse, sarebbe una gran liberazione…. Quieto Mino;… Maria, non toccare quella sedia;… no, Tullio, non arrampicarti sul canapè;… ho detto di no…. e quell’altro che tira il cordone della tenda…. no, no…. ah Vergine Santissima, voi non ne avete avuti cinque figliuoli…. avete già tribolato abbastanza con uno solo.
E queste esclamazioni erano intermezzate da pif puf a destra e a sinistra con l’inevitabile accompagnamento di pianti e singhiozzi infantili.
— La festa è peggio che mai — notò la Lucia — perchè non posso mandarne a scuola nessuno.
Non rimasi dalla mia amica che un quarto d’ora, quel tanto che bastava per informarla della mia partenza e congedarmi da lei. Ella non deve neanche aver capito ch’io vado così lontano. — Buon viaggio — mi disse. — Quando vieni a Venezia, se ti ricordi di me mi farai piacere…. Ma che sia di giorno di lavoro. Arrivederci…. E non ti maritare.
Iersera, dopo parecchi giorni piovigginosi, faceva bel tempo, e la signora Celeste mi propose di fare una passeggiata. Accompagnammo la Giulia Sereni a casa sua, e poi andammo noi due sole solette sul Molo. Imboccando la Piazzetta si vedeva attraverso l’arcata d’angolo del Palazzo Ducale il solco tremulo e argenteo segnato dalla luna sull’acqua; e la mole ardita e leggiadra dello stupendo Palazzo, e le colonne di Marco e Todero, e la biblioteca di Sansovino spiccavano maravigliosamente sull’azzurro limpidissimo del cielo. L’isola di San Giorgio, in fondo, chiudeva il quadro…. Ma dal Molo lo sguardo correva senza ostacoli fino alla punta dei Giardini e alla striscia sottile del Lido, abbracciando tutto il bacino della Laguna e tutta la Riva degli Schiavoni, nuotanti, per così dire, nel mite chiarore lunare. Era un silenzio, una quiete di città abbandonata; non un fischio di vapori, non un movimento di remi. Con le braccia incrociate sul davanti ai loro pontili i barcaiuoli gridavano macchinalmente: Gondola, gondola. E nessuno rispondeva. Lontano, lontano, una barca dal felze basso e chiuso, dall’aspetto sinistro, la barca che conduce i colerosi all’Ospitale di San Cosmo, s’avviava verso la Giudecca.
Dopo aver girato alquanto su e giù, sedemmo con la signora Celeste su una delle panchine di marmo vicine al ponticello che congiunge il Molo al Giardinetto. Non passava quasi anima viva; il caffè in capo al viale era muto, buio e deserto e metteva tristezza a vederlo, specialmente chi se lo ricordava negli anni addietro, in questa stagione, affollato, pieno di luce e di musica.
Comunque sia, anche nello squallore presente, la mia Venezia esercitava sopra di me un fascino irresistibile. Non mi sarei più mossa di lì; aspiravo per tutti i pori la voluttà segreta che dà lo spettacolo delle cose belle.
La signora Celeste rispettò per un poco il mio raccoglimento, facendomi il gran sacrifizio di serbare il silenzio; ma quando i Mori della Loggetta batterono le dieci, ella mi toccò la spalla e mi disse che era tardi e che bisognava rincasare. Mi alzai come un automa, girando gli occhi intorno ancora una volta, quasi per imprimermi nella pupilla la tinta del cielo e dell’acqua, la linea dei monumenti, e ogni particolare della scena incantevole che forse non avrei più riveduta.
In Merceria fummo raggiunti dal professore Verdani che rincasava anch’egli e che ci si pose al fianco. Era inquieto per l’inquietudine della sua mamma, la quale non voleva persuadersi che il colèra fosse in diminuzione, e insisteva per venire a Venezia presso il figliuolo.
— Questo non posso permetterlo — egli disse — ma capisco che mi toccherà domandare una licenza di due o tre giorni e fare una corsa a Bologna.
— Va via?… Quando? — esclamai, dolorosamente colpita dalla notizia.
— Oh! — rispose il professore. — Forse alla fine della settimana…. Lunedì sera al più tardi sarei di ritorno…. Ella non sarà mica partita?
— Io?… No…. non credo — balbettai confusa.
— No certo — egli soggiunse. — Basta che parta il giovedì…. Mi dorrebbe troppo ch’ella partisse senz’averla risalutata.
La signora Celeste affermò energicamente ch’io non dovevo partire che all’ultimo momento…. seppur partivo. È inutile; la signora Celeste non vuol rinunziare alla speranza ch’io rimanga a Venezia.
Fra una chiacchiera e l’altra si giunse a casa e ci scambiammo la buona notte. Il professore mi diede mia stretta di mano all’inglese.
Non avevo sonno e cominciai a fare il mio baule nel quale posi anche dieci o dodici libri che desidero portar meco; un piccolo Dante, un’edizione completa del Manzoni, la Gerusalemme, le Odi barbare del Carducci, un volumetto di poesie dello Schiller tradotte da! Maffei, ecc., ecc. Il resto della mia minuscola biblioteca lo regalerò alla Norini, la lettrice infaticabile. È vero ch’ella mi rivolse un giorno questa singolare domanda: — Avresti da prestarmi un libro immorale? — E poichè io inarcavo le ciglia, ella insistè: — Sì, uno di quei libri che non si mettono in mano alle ragazze…. Non ti scandalizzare. Noi maestre siamo inzuppate fradicie di moralità…. I nostri manuali scolastici sono così noiosamente virtuosi…. I discorsi che facciamo alle nostre allieve, quelli che sentiamo farci dalle autorità competenti sono uno stillato di così sante massime, che qualche volta, per amor dei contrasti…. capisci….
Non so che dire; i libri che lascerò alla Norini non sono immorali…. S’ella non vorrà leggerli, pazienza…. Li serberà per memoria.
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Una futile ragione mi tenne alzata iersera più tardi del consueto. Sul punto di coricarmi mi parve che la mia camera avesse bisogno d’aria e spalancai le imposte. Naturalmente la luce interna si riflettè sulla muraglia sgretolata della casa dirimpetto, di là dalla calle ch’è larga forse un paio di metri, e vi segnò sul fondo scurissimo la sagoma rettangolare della finestra in mezzo alla quale spiccava la mia ombra. Nè ciò avrebbe fermato la mia attenzione; ma a sinistra, poco più in là, sulla stessa muraglia di fronte vidi un altro rettangolo luminoso e in mezzo ad esso un’altra ombra, come il busto di un uomo seduto e assorto in qualche grave occupazione. Sulle prime restai perplessa. O di dove veniva quella luce? E che corpo proiettava quell’ombra? Però non tardai a raccapezzarmi. Proprio alla sinistra, due stanze dopo la mia, c’era la camera del professor Verdani. È chiaro ch’egli era alzato com’ero io, e che aveva, come me, voluto prendere una boccata d’aria prima di mettersi a letto. L’ombra mutò posizione e anzichè d’una persona seduta parve quella d’una persona affacciata al davanzale. Noi non potevamo vederci, il professore ed io, chè ce lo avrebbe impedito anche di giorno la cappa d’un camino posta fra le due finestre; tuttavia giurerei che a due riprese egli abbia proteso la testa dalla mia parte. Del resto, io feci lo stesso. Di nuovo l’ombra si mosse e ora s’ingrandiva ora s’impiccioliva sul muro, come avviene d’un corpo che ora s’avvicini ora si discosti da un punto luminoso. Certo il professore camminava su e giù per la stanza. Tendendo l’orecchio nel silenzio profondo avrei giurato di sentire il suono de’ suoi passi. Due volte ebbi la tentazione di gridare: — Buona sera, professore; — due volte il saluto mi morì sulle labbra. Alle undici e tre quarti richiusi le imposte.
Mercoledì sera, 16 giugno.
Spese e visite, visite e spese; ecco il bilancio della giornata. Ho qui schierati sul mio tavolino cinque o sei gingilli che regalerò alle mie amiche; roba, s’intende, di poco valore, quale può essere donata da una povera diavola come sono io. In tempi ordinari i bottegai mi avrebbero servita con la massima flemma del mondo; oggi invece gareggiavano di zelo e di sollecitudine. È un piagnisteo generale…. Il paese è deserto; si apre e si chiude il negozio senza veder anima viva…. E tutti hanno bisogno di prendersela con qualcheduno; coi cittadini che partono o coi forestieri che non vengono, col Municipio, col Governo, coi bollettini sanitari, con le quarantene, coi medici e persino con gli ammalati. E, a rigore, gli ammalati sono i più colpevoli…. Se non ci fossero, loro!…
Oggi, a pranzo, il professore entrò in salotto ch’eravamo già sedute a tavola. Nel darmi la mano e nel prendere il suo posto fra la Giulia e me, egli arrossì visibilmente e son certa d’aver arrossito anch’io. Perchè? Ci vergognavamo forse d’esserci spiati a vicenda? Ero in procinto di dirgliene qualche cosa; ma la Sereni ci aveva piantato gli occhi addosso, e preferii di tacere.
Gran pedante quella Giulia Sereni! Da un paio di giorni, senza dubbio per farsi bella col professore il quale dichiarò sere addietro di non aver perduto ogni gusto per la poesia nemmeno dopo essersi consacrato agli studi scientifici, ella infarcisce i suoi discorsi di citazioni di versi. Se la zia non la fermava in tempo, oggi ci avrebbe data una vera accademia di declamazione. Per fortuna quand’ella intuonò il celebre sonetto del Carducci: T’amo, o pio bove, la signora Celeste, che non ne poteva più gridò: — Auff! Anche il manzo adesso…. Mangialo il manzo, e non ci romper le scatole!…
Quest’uscita molto prosaica e plebea tarpò l’ali della nostra Saffo.
È inutile ch’io lo nasconda, la Sereni mi va diventando proprio antipatica. Forse non le perdono l’effetto disastroso ch’ella produce sulle mie facoltà intellettuali. Non fui mai una ragazza prodigio, e tante disgrazie, e tante incertezze dell’avvenire e più di tutto quest’incubo di dover lasciar per sempre il mio paese son fatti apposta per smorzare in me ogni vivacità ed ogni brio; a ogni modo, non sono una stupida; ma in presenza della Sereni il mio spirito s’intorpidisce e la mia lingua s’inceppa. La sua gran parlantina mi rende muta. Peggio poi quand’ella colma Verdani di moine e d’elogi, quando approva clamorosamente ogni opinione ch’egli esprime. Allora il dispetto mi vince, ed è molto se si riesce a cavarmi di bocca un sì o un no. Pur troppo m’accorgo che ho un pessimo carattere, cosa della quale non m’ero accorta sino a questo momento. È ben vero che il conoscere a fondo se stessi è tanto difficile quanto il conoscere a fondo gli altri.
Per esempio, il difetto della curiosità non credevo d’averlo. Eppure, solo una persona curiosa può fare ciò ch’io feci iersera.
Sulla mezzanotte, senz’accendere il lume, scesi dal letto, infilai la vestaglia, e dopo aver aperto delicatamente un’imposta insinuai pian pianino la testa fra i due battenti. Volevo vedere se il professore era desto, se aveva la finestra chiusa o spalancata, se lavorava…. E vidi infatti la luce che veniva dalla sua camera brillar sulla muraglia dirimpetto, e in quella luce muoversi l’ombra del mio vicino…. Su e giù, su e giù come la sera prima…. Curioso modo di studiare che ha il professor Verdoni!… E, come la sera prima, vi fu un momento in cui egli si affacciò al davanzale…. Istintivamente raccolsi intorno al petto le pieghe della mia vestaglia e trattenni il respiro finch’egli non si fu allontanato….
Giovedì sera, 17.
Se fossi stato Lear, avrei preferito Cordelia. Queste parole dette qualche ora fa da Verdani non mi possono uscir dalla mente. Le provocò la Giulia Sereni con la sua nullità e con la sua pedanteria. Oggi ella volle darci un altro saggio della sua erudizione di frontispizi citando lo Shakespeare…. Oh Shakespeare!… Il divino Shakespeare…. Pareva che fosse stato un suo amico d’infanzia…. E io sarei pronta a scommettere ch’è molto s’ella ha sentito il monologo dell’Amleto recitato da un dilettante d’una delle nostre società filodrammatiche.
Il professore fece del suo meglio per lasciar cadere il discorso mostrando invece d’interessarsi grandemente alle spiegazioni date dalla signora Celeste sui diversi modi di preparar la salsa di pomidoro; ma l’insistenza della Sereni lo costrinse a uscire dal suo riserbo. E parlò dello Shakespeare come sa parlar lui; breve, chiaro, efficace. Io stavo a sentirlo incantata, ammirando sempre più quella sua cultura così varia e così ricca e nello stesso tempo così aliena da ogni ostentazione. Verdani non è soltanto un matematico; è anche un letterato e un artista. E quando s’accalora in un argomento, come l’ingegno gli brilla negli occhi, come la sua fisonomia non regolare diventa bella ed espressiva! Figuriamoci se la Giulia non andò in brodo di giuggiole! Ah che fortuna per una giovine desiderosa d’istruirsi il poter gustare di quando in quando la conversazione del professore! Ci s’imparava più che in tutte le scuole, più che da tutti i libri. Non c’era un dubbio ch’egli non sapesse risolvere, non c’era un soggetto su cui egli non gettasse un raggio di luce.
In fin dei conti quella disgraziata della Giulia non diceva nulla in cui io non convenissi con lei, ma, al solito, la sua enfasi da prima attrice chiudeva la bocca a me e m’impediva perfino di fare un moto d’assenso col capo. Me ne crucciavo in cuor mio inutilmente; c’era qualcosa che paralizzava la mia volontà.
La Sereni ebbe un sorrisetto da donna superiore. — Io compiango quelli che non sono accessibili all’entusiasmo.
All’allusione manifesta mi scossi, deliberata a difendermi; ma non n’ebbi il tempo; chè Verdani, senza rilevare, almeno apparentemente, la frase della sua interlocutrice, tornò a discorrere di Shakespeare.
— E il Re Lear! — egli chiese alla Sereni. — Conosce il Re Lear?
La Giulia non ebbe il coraggio che avrei avuto io di rispondere che non l’aveva neanche sentito a nominare, e disse che lo conosceva…. già…. un magnifico lavoro…. era però tanto tempo che l’aveva letto!
— Lear! — ripigliò Verdani. — Una concezione superba…. Se ne ricorda?… Il vecchio re, sazio d’anni e di gloria, vuol liberarsi dalle cure di Stato e dividere i suoi domini fra le tre figliuole, Gonerilla, Regana e Cordelia. Senonchè egli desidera prima udir dalle loro labbra fino a qual punto esse l’amino. Gonerilla e Regana non hanno limiti nelle loro manifestazioni di tenerezza; esse protestano di amar l’autore dei loro giorni più della luce degli occhi, più della libertà, più della vita. Ma l’amore di Cordelia ha la verecondia degli affetti sinceri e sdegna queste iperboli bugiarde; ond’ella, la prediletta del padre, non sa che abbassare il capo e tacere. E Lear, accecato dalla vanità e dall’orgoglio, la priva del suo retaggio, la maledice, la scaccia da sè….
Verdani s’arrestò per pochi secondi; quindi soggiunse lentamente e quasi scandendo le sillabe: — Se fossi stato Lear, avrei preferito Cordelia.
Nel dir così, egli fissò il suo sguardo penetrante prima sulla Giulia e poscia su me. Ella si morse il labbro; io sentii un’ondata calda di sangue salirmi dal cuore alla faccia; sentii una dolcezza ineffabile corrermi per le vene. Non pronunziai parola, ma Verdani deve aver letto certo ne’ miei occhi la mia infinita riconoscenza.
Per oggi il vecchio Lear fu rimesso a dormire, e ignoro quali altre vicende gli siano toccate. Più che di lui mi premerebbe saper di Cordelia…. Le fu resa giustizia?
Venerdì, 18 giugno.
Verdani doveva partir questa sera alle 11; invece partì questa mattina per tempo lasciando alla Gegia un biglietto per me. — Il professore mi raccomandò caldamente di consegnarglielo in proprie mani — mi disse la Gegia con quell’aria misteriosa che sogliono assumer le serve nel fare un’ambasciata.
In quanto al biglietto esso non conteneva che poche righe: “Cara signorina Elena. Anticipo la partenza per poter anticipare il ritorno. Le comunicherò allora i motivi della mia improvvisa deliberazione. Pensi qualche volta a me in questi giorni, e mi creda suo affezionatissimo Gustavo Verdani.„
Perchè Verdani mi scrive? Perchè mi offre degli schiarimenti ch’io non ho alcun diritto di chiedere? E quel suo invito a pensare a lui è una pura formalità o è qualcosa di più? E che motivi saranno quelli a cui egli accenna?
Ecco le domande ch’io rivolgo a me stessa da questa mattina in poi e alle quali non mi vien fatto di rispondere. Il meglio sarebbe non curarsene più che tanto, e aspettar dalla bocca di Verdani la chiave dell’enigma. No, meglio ancora sarebbe non aspettar nulla, sfuggire delle spiegazioni inutili…. Dio buono! Io avrei bisogno di calma, avrei bisogno di chiamare a raccolta le mie forze per dare un addio triste, ma dignitoso alla patria e agli amici, e invece noto in me i segni precursori della tempesta…. Ma è possibile?… Io proverei per Verdani un sentimento diverso dalla semplice amicizia? Alla vigilia di partire per sempre io lascerei divampar quest’incendio nel mio cuore? Eppur fino a un paio di giorni fa io non lo consideravo che come un amico, un amico leale il cui ricordo pieno di soavità mi avrebbe accompagnata nell’esilio…. Mercoledì soltanto le sue parole, i suoi sguardi mi turbarono profondamente…. Oh s’egli lo sapesse, come se ne dorrebbe!… Egli è un onest’uomo, non può volere il male di nessuno…. Ma allora, perchè quel biglietto, perchè quella frase: pensi qualche volta a me?… Ch’io mi fossi ingannata sul conto suo, ch’egli fosse uno dei soliti libertini ai quali piace scherzare col fuoco, certi ch’esso abbrucia gli altri e non loro?… Ma io, io non sono forse la prima colpevole? Non dovevo accorgermi del pericolo che mi sovrastava? Non dovevo sapere, a venticinqu’anni compiuti, che questo povero cuore di donna è debole contro le insidie, è facile alle illusioni, e che, solo chiudendosi alteramente in sè stesso, può evitare di essere insidiato ed illuso? Non dovevo a ogni modo arrestarmi a tempo in una via senza uscita? Dalle mie inquietudini, dai miei dispetti, dalla mia avversione esagerata per la Giulia Sereni non dovevo capire che camminavo sopra un vulcano?
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Sono una sciocca. Ho riletto or ora il bigliettino del professore. Certo fu in lui un atto cortese lo scriverlo, ma egli ha riparato a questa esuberante gentilezza scrivendolo così asciutto, così conciso che ci vuol proprio uno sforzo di fantasia a supporvi un significato recondito…. Tanto meglio dunque…. O tanto peggio?… Dio mio, Dio mio…. Sono giunta al punto di non saper più ciò che devo desiderare e ciò che devo temere?
Mezzanotte.
Per distrarmi acconsentii ad andar in Piazza stasera con la signora Celeste per aspettarvi il ritorno dei bersaglieri dal Lido. Al Lido s’è festeggiato, come si festeggiava oggi in ogni distretto militare della penisola, il cinquantesimo anniversario della istituzione di questo Corpo divenuto così popolare in Italia.
Piovigginava e non c’era gran folla. I bersaglieri, approdati sul Molo, percorsero la Piazza con fiaccole accese fra gli applausi e i fuochi di bengala. Fu un divertimento che durò dieci minuti.
A ben altro spettacolo avevo assistito, di ben altro entusiasmo gli stessi bersaglieri avevano fatto palpitare il mio cuore di bimba il 19 ottobre 1866, all’ingresso delle truppe italiane a Venezia. È una delle memorie più vivaci della mia infanzia.
Mi par d’essere all’angolo delle Procuratie Nuove, in fianco del campanile, con la mamma e col babbo, in mezzo a una calca di gente ch’io vedevo muoversi e ondeggiare sotto di me, perchè il babbo, alto di statura, m’aveva presa in collo e messa a sedere sulla sua spalla. Io guardavo incantata i battaglioni che mi sfilavano dinanzi, guardavo le bandiere tricolori che gonfiate dal vento si svolgevano dalle antenne di San Marco in magnifici panneggiamenti, e le signore che dalle finestre agitavano i fazzoletti, e gridavo anch’io come gli altri: Viva, viva! A un tratto s’udirono degli squilli di tromba e tutta quella moltitudine si agitò, muggì come un mare in burrasca e una voce corse per tutte le bocche: I bersaglieri, i bersaglieri. Fummo travolti dalla folla, sospinti di qua e di là, fin che ci trovammo, non so come, pigiati contro una colonna. Intesi dopo che s’era corso un gran pericolo; il babbo aveva temuto di non poter tenermi in equilibrio e la mamma che gli si aggrappava alle falde del vestito era stata sul punto di esser separata da noi e rovesciata a terra. Ma allora chi ci badava? Una vispa schiera di piccoli demoni (li ho sempre davanti agli occhi) dalla faccia abbronzita, dalle uniformi turchine, dai grandi cappelli piumati, si precipitava dal Molo in Piazzetta sollevando sul suo passaggio un urlo frenetico: Viva, viva i bersaglieri! E io battevo le mie manine e ripetevo: Viva, viva i bersaglieri!… Ah chi direbbe che da quel tempo son passati quasi venti anni?… Povero babbo e povera mamma mia, voi non siete più adesso al mio fianco, e io sono alla vigilia di abbandonare le vostre tombe!
Questi pensieri mi si affollavano nella mente durante la pallida festa di questa sera. E pensavo anche: Quelli che vent’anni fa furono applauditi su questa piazza dove sono adesso? Quanti ne sopravvivono? E ove sono i plaudenti d’allora?… Gli edifizi sono rimasti immutati; forse persino le pietre del selciato sono le stesse; le cose morte sono quelle che cangiano meno…. Ma negli uomini è un continuo trasformarsi, un continuo sparire.
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Un capriccio. Ho qui sul tavolino, aperte tutt’e due, la lettera di mio fratello e quella del professore Verdani, e ho voluto confrontarle tra loro. La lettera di Odoardo con la sua calligrafia inglese, commerciale, nitidissima, mi dà un senso di freddo…; l’altra…. ho un bel dire ch’essa non significa nulla; l’altra con le sue frasi rotte, con la sua scrittura ineguale tradisce un’emozione che si comunica a me….
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A proposito: oggi la Giulia non ha desinato con noi. Era invitata da un’amica.
Sabato, 19 giugno.
Non credevo in verità che la prima persona dalla quale mi sarei congedata con tutte le regole sarebbe stato il colonnello Struzzi, il mio turbolento vicino. Avevo smesso d’occuparmi di lui; le sue sfuriate giornaliere con la Gegia, i suoi monologhi a voce alta non mi facevano più nessun effetto, come a chi abita presso una cascata finisce col non far nessun effetto lo scroscio dell’acqua. Figuriamoci se mi sarei curata di cercarlo prima di partire…. Ma questa mattina, proprio nel momento ch’io uscivo dalla mia camera, egli usciva dalla sua, e sfido io, bisognò salutarsi per forza. Benchè irritatissimo per la nappa del campanello che gli era rimasta in mano e ch’egli portava, come corpo del delitto, a mostrare alla signora Celeste o alla Gegia, il colonnello era, relativamente al solito, di umore mansueto.
— Signorina Giralda, — egli mi disse; — ho piacere d’incontrarla. Mi assenterò per un paio di settimane, e poichè al mio ritorno non la troverò più…. ho sentito ch’ella va a stabilirsi lontano…. le do oggi il buon viaggio.
Egli mi tese bruscamente la destra, e soggiunse: — Fa bene a lasciar Venezia…. Se potessi anch’io, anzichè per quindici giorni, andarmene per sempre!… Questa non è una città…. sarà forse un museo!… Qui non si mangia, qui non si digerisce, qui non si dorme;… insomma qui non si vive…. Beata lei, signorina…. Buon viaggio, buon viaggio…. e buona fortuna…. Passi, passi pure…. io vedrò quelle femmine più tardi.
Chinò leggermente il capo, fece un mezzo giro con precisione militare e rientrò nella sua camera, tenendo sempre in mano la nappa del campanello.
Non lo vedrò più, ma la sua figura allampanata, i suoi modi strani, la sua voce rugginosa non mi fuggiranno così presto dalla memoria.
Nel pomeriggio capitarono visite. Vennero le Giglietti, madre e figlia, la figlia che al primo del mese farà gli esami di telegrafista, e non sa darsi pace che i regolamenti abbiano voluto proibire il matrimonio alle ragazze impiegate nei telegrafi; venne quell’originale della Norini; venne infine l’Augusta Dalla Riva in lutto strettissimo, ma trasfigurata dal suo amore felice. Mi parlò un poco della sua mamma defunta, mi parlò molto del suo Umberto, delle cure delicate ch’egli le prodiga, del quartierino ch’egli sta allestendo per lei.
Ah — esclamò l’Augusta al momento di prender commiato — io non meritavo questa fortuna…. Possibile che non tocchi nulla di simile a te che meriti tanto di più?… Se fossi un uomo, io!…
— Se tu fossi un uomo — risposi io sorridendo — non sposeresti il tuo Umberto.
L’argomento non ammetteva replica, ed ella dovette darmi ragione.
Ci vedremo ancora una volta, martedì, e mi riservo a consegnarle in quel giorno il ricordo che le ho destinato e che servirà per regalo di nozze.
Tutte le mie amiche mi promettono di scrivermi; tutte vogliono un’uguale promessa da me. Che corrispondenza avrebbe ad essere!…
Undici di sera.
Che cosa farà Verdani in questo momento?… — Pensi a me qualche volta — egli mi scrisse…. Ecco, io ci penso. Egli è accanto alla sua mamma, in un salottino modesto, illuminato da una lampada a petrolio…. la sua mamma lavora (so ch’ella ha l’abitudine di lavorare);… egli le parla de’ suoi studi, della sua vita di Venezia;… se le parlasse anche di me?… Stupida che non son altro!… Il più probabile si è che a quest’ora egli sia già a letto e dorma profondamente.
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Oggi a otto sarò in alto mare, sola in una cabina di bastimento, slanciata contro all’ignoto…. Penserò alla patria, penserò alle persone care, penserò a lui…. È una pazzia, ma lo amo.
Domenica mattina, 20 giugno.
Lo amo. Furono l’ultime parole che scrissi iersera, sono le prime che scrivo stamane. Lo amo, provo una singolare dolcezza a ripeterlo. Fino a quando durerà questo stato dell’animo, questo delirio che mi fa trovare un’illusione di felicità in un sentimento che finirà forse coll’essere il cruccio della mia vita?… Mi accorgo di sognare, eppur la vaga coscienza della realtà non mi toglie la gioia del sogno. Sogno a volte l’ebbrezza dell’amore ricambiato, a volte m’esalto nell’idea del sacrifizio, nell’orgoglio d’una passione che si alimenta da sè, che non spera, che non chiede, che non vuole compensi.
È strano. Quand’ero più giovine, non ancora sbalestrata dalle sventure nel mondo senza mezzi di fortuna e senz’appoggi, ronzavano intorno a me pure i galanti. Ho sentito susurrarmi all’orecchio delle dolci paroline, ho visto degli occhi languidi fissarsi nei miei, ho ricevuto dei bigliettini teneri…. Ma ne ho riso: ho sempre indovinato ciò che v’era di poco serio in quelle calde proteste; non amai nessuno di quelli che dicevano di amarmi…. E oggi amo chi non mi disse nulla… o quasi nulla! È proprio vero che non si sa nè come si ama, nè perchè si ama.
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Egli potrebbe tornare oggi stesso…. Non mi scrisse di avere anticipato la partenza per anticipare il ritorno?… Io non uscirò dal mio riserbo; lo ringrazierò del suo biglietto senz’aggiungere una sillaba, senza domandargli le spiegazioni ch’egli mi promise. S’egli tacesse, tacerò anch’io…. Il diretto da Bologna arriva alle quattro e mezzo.
Tre ore.
Ho pregato la signora Celeste di lasciarmi sola nella mia camera, ho avvertito la Gegia che oggi non desideravo ricever nessuno, e dopo mezzogiorno mi son gettata sul canapè sperando di dormire…. Chiusi gli occhi, ma non dormii.
Tra la veglia e il sonno mi venivano all’orecchio tutti i rumori della calle; le grida e il rincorrersi dei monelli, il chiaccherio delle comari che disputavano di lotto e di colèra, il borbottar noioso d’una mendicante ferma sulla cantonata. Poi, per la prima volta nell’anno, mi ferì la voce nota e triste d’una persona sconosciuta, la voce d’una venditrice di more, che fin dalla mia infanzia, in qualunque parte della città io abitassi, sentivo offrir la sua merce con le identiche parole e con l’identica cantilena, lenta, strascicata, patetica: — More, bele more da morero e da giardin. More, chi vol more?… — Non so dire e meno ancora saprei spiegare la malinconia che quella voce e quella cantilena mi han sempre messa nell’anima. Ma non avevo mai vista la venditrice di cui dimenticavo l’esistenza per nove mesi dell’anno. Ho voluto vederla oggi. È una contadina di mezza età, tozza della persona, con un cappellaccio nero a cencio, con un goffo vestito di traliccio bleu su cui spicca una pettorina di tela che dovrebbe esser bianca, ma che il sugo delle more ha insudiciato di macchie tra il rosso cupo e il violetto; in somma, tutto ciò di più prosaico che si possa immaginare…. Valeva la pena d’alzarsi dal canapè per ammirare questo bel tipo. E nondimeno quando il ritornello riprese More, bele more, ecc.; e più ancora quando la voce andò via via allontanandosi, ebbi il solito stringimento di cuore, la solita voglia di piangere.
Era il vespero. Le campane di San Marco suonavano a distesa. Due colombi appollaiati sul tetto della casa di fronte spiccarono il volo verso la piazza.
Mezzanotte.
Il professore non è arrivato. Se non arrivasse neppur domani, neppur doman l’altro; se, invece di anticipare il suo ritorno come aveva promesso, lo differisse fin dopo la mia partenza; se fosse trattenuto da sua madre; se insomma io dovessi abbandonare Venezia senz’averlo più visto?… Perchè, ormai non c’è rimedio, bisogna ben ch’io m’imbarchi a Trieste il 25…. Con quale pretesto potrei tardare di più?… Per aspettar lui che non si cura di me?… Per rivelargli il mio amore?… Per mendicare il suo?… Ah no, no, sono troppo altera; piuttosto morrei.
Del resto, se pur Verdani non viene, è impossibile ch’egli non scriva. Non è soltanto un debito di cortesia, è un debito di lealtà. Mi scriverà per mandarmi un saluto, per chiedermi scusa…. e questa lettera fredda, cerimoniosa dovrà essere il mio conforto nelle amarezze dell’esilio!… Sciocca, sciocca, che questa mattina credevo possibile la felicità nella passione solitaria, ignorata da chi ne è l’oggetto…. Sarà il tarlo nelle viscere, sarà l’inferno nell’anima, sarà l’amore che si tramuta in odio….
La Giulia seguita a non comparire. Sembra che le amiche (tenere amiche) se la disputino per averla a pranzo con loro…. Oh, ma ricomparirà alla nostra tavola, ricomparirà certo appena torni Verdani…. Ella non deve mica essersi data per vinta…. E forse ha ragione a persistere, forse le sue grazie trionferanno delle ritrosie del professore, forse, nel Caucaso, mi giungerà l’annunzio di quelle auspicatissime nozze….
Che desinare allegro fu quello d’oggi! La signora Celeste voleva discorrere, ma io la scongiurai d’aver pietà della mia emicrania. Allora ella divenne grave, misteriosa, e disse con piglio solenne:
— L’emicrania…. Uhm!… Domani sarà passata.
Domenica, 4 luglio.
Riprendo la penna dopo quindici giorni per compiacere ad un’altra persona. Io avrei preferito attendere fin che avessi l’animo più calmo, più riposato, ma quella persona mi sollecita a romper gl’indugi, e i desideri di lei sono ormai legge per me.
Quando penso alle disposizioni d’animo con le quali cominciai questo diario e alle disposizioni con cui lo finisco, non posso non domandare a me stessa se io, io che ne scrivo l’ultime pagine, sono l’identica Elena Giralda che ne scrisse le prime e se la vita serba realmente di queste sorprese, onde chi ieri ne invocò il termine come beneficio supremo possa oggi augurarsela eterna.
Ma non voglio perdermi in divagazioni inutili.
— Sa, il professore è venuto — mi disse la Gegia, entrando in camera col caffè la mattina di lunedì, il lunedì 21 giugno…. oh non c’è dubbio che mi scappi di mente la data. — È venuto con la prima corsa….
Avevo le palpebre gravi, l’ossa peste dalla notte insonne. Mi posi a sedere sul letto e dissimulando la mia agitazione quanto meglio potevo: — Ah! — replicai macchinalmente — è venuto?… E sta bene?
— Bene…. bene…. E non pareva punto stanco…. Avrà riposato un’ora al più…. poi, quando meno si credeva, si affacciò alla soglia della cucina e chiamò la padrona con la quale ebbe un colloquio lunghetto, e adesso è lì in salottino che aspetta….
— Aspetta?… Che cosa?…
La Gegia prese la chicchera del caffè dalle mie mani che tremavano, e rispose: — Ma!… sembra che aspetti lei….
— Perchè dovrebbe aspettarmi? — soggiunsi, sforzandomi di far l’indifferente.
— Questo poi non lo so…. Non ho inteso ciò che si dicessero con la signora; ho inteso soltanto le ultime parole del professore: La vedrò appena alzata…. Di chi altri poteva parlare?
Licenziai la Gegia e saltai giù dal letto. Avrei voluto esser vestita in un attimo, e invece la mia toilette mi occupò una mezza oretta abbondante, sia che istintivamente vi ponessi più cura, sia che la smania di far presto riuscisse, come suole, all’effetto contrario. Rammento un nodo dovuto rinnovare tre volte, un bottone passato e ripassato in un occhiello che non era il suo, un riccio che s’ostinava a cadermi sulla fronte e mi tenne davanti allo specchio per un paio di minuti.
Quando fui pronta, esitai ad uscir dalla stanza; perchè, sebbene avessi una gran voglia di salutare Verdani, non volevo aver l’aria di cercarlo. D’altra parte però non era giusto ch’io rimanessi, contro le mie abitudini, chiusa in camera fino al momento della colazione. Uscii quindi in cappellino e mantiglia, deliberata ad andar fuori di casa per alcune spese dopo aver dato il solito buon giorno alla signora Celeste. Chi sa, del resto, che confusione s’era fatta la Gegia nella sua zucca vuota? Chi sa se Verdani si sognava neanche di attendermi?
Ma la Gegia aveva colto nel segno, e il professore mi attendeva davvero. Anzi egli doveva essere alle vedette, perchè appena sentì i miei passi mi venne incontro tendendomi tutt’e due le mani.
— Desideravo — egli principiò alquanto impacciato, e guardando il mio cappellino — desideravo dirle qualche cosa…. Ha urgenza di uscire? — E poichè io tardavo a rispondere, egli insistè: — Avrei urgenza io.
— Quand’è così — susurrai con un filo di voce.
Egli m’introdusse nel salottino ove la signora Celeste stava una parte del giorno a lavorar di calze o a leggere l’Adriatico e il Pettegolo, e ove io venivo di tratto in tratto a farle compagnia con un ricamo o con un libro. Adesso la signora Celeste non c’era; eravamo soli, il professore ed io.
Verdani mi pregò di sedere. Egli si mise a camminare in su e in giù, come aveva camminato nella propria stanza quelle sere in cui io vedevo la sua ombra sul muro della casa dirimpetto. Dopo un paio di giri si fermò, s’appoggiò alla spalliera d’una seggiola e mi chiese senza preamboli: — Quando parte, signorina Elena?
— Quando parto?… Ma…. lo sa bene…. Non più tardi di giovedì mattina…. Se devo imbarcarmi venerdì….
— Ed è necessario, assolutamente necessario che s’imbarchi questa settimana?
— Mio fratello mi scrisse di prendere il vapore del 18 o del 25…. Quello del 18 non l’ho preso; dunque….
— E se domandasse una proroga?…
— Al punto in cui siamo?… Dopo aver fatto tutti i preparativi, dopo essermi accommiatata da quasi tutti i miei conoscenti?… No, no, nemmen per sogno….
— Se poi ha tanta premura di lasciarci! — egli interruppe con amarezza.
— O professore — esclamai, e sentivo un nodo alla gola — non sia ingiusto…. Crede che me ne vada fino al Caucaso per un capriccio?… Avrò avuto torto ad accettar con tanta precipitazione l’offerta di mio fratello, ma si metta al mio posto…. al posto d’una ragazza che non è coraggiosa, che non è forte, che non ha spirito d’iniziativa…. Vedevo non lontana la miseria, l’umiliazione di ricorrere alla carità degli estranei, e afferrai la prima tavola di salute che mi fu gettata…. Ormai….
— E non c’è nulla, nulla che potrebbe trattenerla? — seguitò Verdani con calore.
Mi sforzai a dissimulare con una facezia la mia crescente emozione. — Vuol che speri in una lotteria guadagnata senza biglietti, in un impiego ottenuto senza le cognizioni occorrenti per esercitarlo?
La fisonomia di Verdani ebbe una contrazione dolorosa. — Non c’è altro, non c’è proprio altro?
Dio mio! Che cos’è questo riserbo che c’impone di reprimere i nostri slanci, di nascondere i nostri sentimenti? È una virtù o è un vizio? Io lo vedevo soffrire; potevo forse con una parola dissipar le sue sofferenze, infranger l’ultima tenue barriera che si ergeva fra noi e la felicità, e non osavo dir quella parola, non osavo neanche guardarlo in viso.
— Ebbene — ripigliò Verdani mutando posizione e venendo a sedermisi accanto — scriverò a mia madre che m’ero ingannato.
— Sua madre? Come c’entra la sua mamma?
— Oh se c’entra!… Avevo affrettato la mia gita a Bologna per questo. Volevo consultarla, lei che è tanto savia e buona; volevo comunicarle un mio disegno…. S’ella lo disapprovava avrei chinato il capo in silenzio, perchè non oserei far cosa di cui mia madre avesse a dolersi…. Ma ell’approvò tutto; ella mi disse con la sua solita, cieca fede in me: Ciò che tu fai è ben fatto; le persone che tu ami io le amo; c’è sempre posto per esse nel mio cuore e nella mia casa….
Io tremavo come una foglia.
— Professore…. — balbettai confusa.
— Non mi chiami così — egli proruppe con impeto abbandonando la mano ch’io avevo lasciata nella sua. E seguitò con voce raddolcita: — I miei amici mi chiamano Verdani, mi chiamano Gustavo. — Egli scosse tristamente il capo e soggiunse: — È vero ch’ella mi conosce appena. Le son vissuto accanto parecchie settimane senza occuparmi di lei, sfuggendola quasi…. Però, quando il caso ci avvicinò, quando ci scambiammo le prime confidenze, quando la seppi sul punto di prendere la via dell’esilio, provai dentro di me qualche cosa che non avevo provato mai…. La mia scuola, i miei studi aridi e gelati non mi bastavano più; sospiravo il momento d’incontrarla, sospiravo l’ora del pranzo…. Mi pareva che ci fosse una certa analogia fra i nostri caratteri; anch’ella era timida, era riservata come sono timido e riservato io, e la semplicità de’ suoi modi spiccava maggiormente per l’affettazione di altri…. sa bene a chi alludo…. di altri che s’era pur fitto in capo di piacermi…. O signorina, se fossi stato ricco, avrei ben vinto prima la mia ritrosia…. Ma come non esitare se non potevo offrirle, per ora almeno, che un nome oscuro, una vita modesta, fatta di privazioni e di sacrifizio? Ciò non ostante, lo vede, il coraggio lo avevo trovato; ma capisco ch’era un sogno…. un bel sogno….
Ah, in quell’istante trovai io pure il coraggio di dire a Verdani che il suo sogno era stato il mio sogno, che quello ch’egli mi offriva superava di molto ciò ch’io avessi osato chiedere alla fortuna, che lo amavo….
Egli mi strinse sul petto bisbigliando con accento ineffabile: — Elena, anima mia….
Allorchè mi sciolsi dalle sue braccia, mi sovvenne di Odoardo. — E mio fratello che m’aspetta, che mi ha mandato il denaro pel viaggio?
— Tuo fratello? — disse Gustavo. — Gli telegraferai che non puoi partire. Il resto glielo spiegheremo per lettera…. Ha vissuto tanti anni senza di te; si adatterà a vivere ancora…. In quanto al danaro, se non vorrà lasciarlo alla sorella come regalo di nozze, ho qualche risparmio, glielo restituirò io…. Sarà il dono che farò alla mia fidanzata.
Gustavo mi presentò come tale alla signora Celeste, la quale mi abbracciò con trasporto, vantandosi d’aver contribuito a questo lieto avvenimento…. Mai, mai le passò pel capo di far sposare ad un uomo come il professore quella caricatura della Giulia…. Sarà….
Quel giorno stesso, dopo pranzo, mi parve che una nuvola oscurasse la fronte di Gustavo, e gliene chiesi la ragione.
Egli mi rispose con un’altra domanda: — Sei ben sicura di non pentirti?
— O Gustavo….
— Fosti colta così di sorpresa!… Talvolta il cuore umano inganna sè medesimo…. Amandomi oggi, t’è parso d’avermi amato anche prima…. Se fosse un’illusione?
Non gli risposi; gli feci segno d’attendere, entrai nella mia camera e ne presi questo libro, che deposi sul tavolino davanti a lui.
Egli m’interrogò con lo sguardo.
— È un libro — io spiegai — da leggere questa notte…. in quiete…. Non subito…. no.
A malgrado del mio divieto. Gustavo aveva sollevato la coperta dell’album, e ne andava sfogliando le pagine.
— Una specie di diario?
— Appunto.
— Di tuo pugno?
— Di mio pugno…. Ma leggerai dopo… te ne prego.
Gustavo ubbidì a malincuore.
La mattina seguente lo vidi raggiante di contentezza. — O cara, cara — egli mi disse. — Ora non dubito più…. Non puoi immaginarti che gioia sia il sapere d’essere stati amati quando non s’era detto ancora che si amava.
Io sorrisi. — Sì che me l’immagino, poichè è quello che è toccato a me.
— Hai ragione — egli soggiunse abbracciandomi teneramente. — Adesso però convien scrivere l’epilogo.
Mi strinsi nelle spalle.
— Che importa? Questi sfoghi dell’anima s’addicono più ai giorni tristi che ai lieti.
— No, no — insistè Gustavo. — È una storia intima che non può rimanere incompiuta. Devi promettermi di finirla.
Glielo promisi. Ma non trovavo mai il verso di accingermi all’opera. Ieri egli me ne rimproverò con dolcezza. — Se tardi troppo scriverai di maniera. Scommetto che a quest’ora hai dimenticato molti particolari del colloquio che decise della nostra sorte.
— Non scommettere — replicai. — Perderesti.
Fra poco darò da leggere queste pagine a Gustavo, ed egli, leale com’è, sarà costretto a riconoscere che avrebbe perduto. Sono certa di non aver nulla dimenticato e nulla inventato; dalla prima all’ultima pagina la mia semplice cronaca non ha che un pregio, la sincerità.