Enrico Castelnuovo
Ero da due giorni a Milano per una mia faccenda e mi disponevo a ripartire la sera quando mi giunse questo telegramma da Venezia:
Preghiamovi caldamente rappresentare domani nostro Istituto funerali commendatore Baggi. Spendete circa 100 lire in una corona.
Il dispaccio era firmato dal Presidente della Banca Adriatica, persona amicissima mia, ed era spedito evidentemente in nome di tutto il Consiglio d’amministrazione. Anche con la Banca ero in qualche rapporto e sapevo che, parecchi anni addietro, in momenti difficili, l’appoggio del commendatore Baggi le era stato prezioso. Non potevo quindi rispondere con un rifiuto, sebbene, in quanto a me, non avessi mai visto il defunto.
Ordinai la corona, comperai un cappello a cilindro e un paio di guanti neri, e la mattina dopo, alle 9 precise, ero in via Brera, N. 48, dove il commendatore occupava un elegante quartierino del primo piano.
Il carro funebre di prima classe era fermo davanti alla porta, attraendo lo sguardo dei passanti invano allontanati da due uscieri municipali in gran tenuta; lungo il muro andavano via via schierandosi le varie rappresentanze con le loro bandiere; altra gente era raccolta nell’androne e nel cortile; gli amici, i conoscenti, le persone di maggior riguardo erano pregati di salire. Due giovinotti in lutto strettissimo, due nipoti, l’uno grasso e l’altro magro, tutti e due con un viso da eredi, facevano con grande compitezza gli onori di casa. Allorchè mi presentai ad essi, ringraziarono con effusione me e la Banca delle dimostrazioni di simpatia fatte al caro estinto e mi pregarono di tener uno dei cordoni. Balbettai le condoglianze di rigore, insieme con le solite domande insulse sul genere, sulla durata della malattia, ecc., ecc.
— Ma! — rispose il nipote grasso con un sospiro. — Il povero zio aveva avuto l’influenza in gennaio e non s’era mai rimesso…. Però usciva, attendeva agli affari. Alla fine di marzo i medici scopersero un’angina pectoris, e in tre settimane…….
— A sessant’anni appena! — notò un signore calvo che si rasciugava i sudori.
— È una gran perdita per la piazza! — soggiunse un altro.
— Un colpo d’occhio, uno spirito d’iniziativa! — disse un terzo.
I nipoti, chiamati dai loro uffici, uscirono dalla stanza nella quale s’erano raccolti a poco a poco tutti i pezzi grossi della finanza milanese. Sentivo intorno a me come un odor di milioni. E sentivo anche discorrere a bassa voce dei corsi della rendita, del riporto fine corrente, dei cambi, dell’aggio dell’oro, dell’Assemblea della Banca Generale e del Credito Mobiliare, della politica finanziaria del Ministero, e via via. Del morto non si discorreva più. Doveva esser vero quel che mi era stato detto; che, com’egli non aveva una famiglia sua, così non aveva amici intimi; aveva, in gioventù, atteso a’ suoi piaceri; aveva atteso nella maturità alle sue speculazioni; corretto, ossequente alla legge, osservantissimo dei suoi impegni, ma in complesso un fior d’egoista.
Si udì un bisbiglio di preci nell’andito, un bagliore di faci passò attraverso il vano dell’uscio aperto; poi tutta la gente ch’era pigiata nel salotto si mosse e cominciò la discesa giù per la scala. Fu un gran sollievo il trovarsi all’aria aperta.
Il nipote grasso che aveva preso a volermi bene oltre a’ miei meriti, mi accompagnò fino al carro; un impiegato delle pompe funebri mi assegnò il mio posto alla destra del feretro, e dopo qualche minuto speso per ordinare il corteggio ci mettemmo in cammino preceduti dalla banda civica che suonava la marcia del Don Sebastiano.
A tenere i cordoni eravamo in dieci. Io non conoscevo nè gli altri quattro ch’erano dalla mia parte, nè i cinque ch’erano dalla parte opposta; non conoscevo il morto, non conoscevo quasi nessuno di quelli che formavano la lunga processione. Poichè era lunga davvero, più di quello che non mi fossi immaginato, e le finestre delle case davanti a cui passavamo erano piene di curiosi, e di là dalle due file di servi e di fattorini che portavano le torcie accese si vedeva la folla assiepata sui marciapiedi.
L’ufficio funebre venne celebrato nella Prepositurale di San Marco; dopo di che il convoglio, molto assottigliato, si avviò al cimitero.
Ed ecco che passando per il Corso Garibaldi, vediamo dinanzi alla chiesa di San Simpliciano un altro corteggio che stava per muoversi anch’esso, ma che ci lasciò il passo con la deferenza che i funerali di terza classe devono a quelli di prima. Un carro dimesso tirato da un cavallo unico ed umile, e guidato da un cocchiere non umile per sè ma vergognoso di condurre al Camposanto un così povero morto. Sul feretro una sola, piccola ghirlanda di fiori freschi, misero riscontro al lusso di corone che coprivano il feretro illustre.
Un fattorino della Banca Nazionale che mi camminava a fianco si voltò verso un compagno e disse: — L’è il povero Bertizzoni.
L’altro accennò affermativamente col capo.
Rimasi colpito da quel nome di Bertizzoni e non potei a meno di chiedere: — Bertizzoni? Era uno qui di Milano?
— Stava qui da anni annorum…. Ma non era mica nato a Milano…. Tò, adesso che ci penso mi pare che fosse nato a Venezia…. Il signore lo conosceva?
Anzichè rispondere feci una nuova domanda. — Era vecchio?
— Sulla cinquantina.
— E il nome di battesimo?…
— Oh un nome stravagante, Licurgo.
— Licurgo?
— Già.
— Era impiegato?
— Adesso era nella casa Gondrand.
— La casa di spedizioni?
— Appunto.
— E lascia famiglia?
— La vedova e un figliuolo, un bravo ragazzo ch’è alla Cooperativa.
Per quanto la conversazione fosse fatta piano, essa non poteva passare inosservata ai vicini. E un signore grande e grosso che doveva essere un personaggio d’importanza e che teneva uno dei cordoni davanti a me slanciò ripetutamente un’occhiata al fattorino come per ammonirlo a tacere. Compresi anch’io la sconvenienza di quel dialogo in quel momento, in quel luogo, e non aggiunsi altre interrogazioni.
Del resto, non avevo più dubbio alcuno. Una coincidenza di nome e cognome, e d’un nome così fuor del comune, era impossibile. Licurgo Bertizzoni era certo il mio antico condiscepolo, figliuolo di quel maestro elementare, Agenore Bertizzoni, che aveva la passione dei nomi greci. Un fratello di Licurgo si chiamava Socrate, una sorella Cassandra, un’altra Aspasia. Era una famiglia che contrastava il desinare con la cena, e doveva ricorrere a mille espedienti per tirare innanzi; il maestro Agenore la sera copiava musica, e la sua consorte, la signora Palmira, si occupava di combinar matrimonî. Buona gente però, e gente allegra, ospitale. Con Licurgo eravamo coetanei, avevamo percorso insieme le scuole reali e la nostra amicizia era durata alcuni anni dopo la scuola. Tra il 1855 e il 1858 o io andavo a prenderlo la sera o egli veniva a prender me per uscire insieme; anzi più spesso andavo io da lui per merito delle sorelle vispe, floride, belloccie. Non giurerei di non avere abbozzato con la Cassandra un romanzo che finì con poca mia gloria, perch’ella sposò, non rammento se nel 56 o nel 57, un uomo maturo, impiegato alla Contabilità, e che fu tosto traslocato a Pavia. Chi sa dove sarà andata a finire? Sullo scorcio del 1858 le disgrazie caddero come gragnuola secca su quella casa di galantuomini, e successe una gran dispersione. Prima morì la signora Palmira, poi il maestro Agenore; l’Aspasia, in seguito a un disinganno amoroso, volle a tutti i costi entrare in un monastero; Socrate s’imbarcò su un bastimento mercantile comandato da un capitano dalmato ch’era suo lontano parente; Licurgo, rimasto solo, campava la vita facendo lo scribacchino presso uno spedizioniere e ingrossando il magro stipendio con qualche debituccio. Gli piacevano le donne e aveva, relativamente alle sue forze, le mani bucate. Nel 1859 egli fece quello ch’io non potei fare; emigrò in Piemonte e si arruolò volontario. Ci scambiammo una mezza dozzina di lettere prima che cominciasse la guerra. A campagna finita egli mi riscrisse da Torino ove aveva un’occupazione provvisoria in attesa degli avvenimenti che non potevano tardare e che lo avrebbero ricondotto a Venezia. Nel 1860 riprese le armi. In dicembre mi mandò sue notizie da Napoli. Aveva lasciato il servizio e si proponeva di stabilirsi in quella città fino a un’altra guerra che cacciasse definitivamente gli Austriaci di là dall’Alpi. A Venezia non sarebbe tornato che con le nostre truppe. Non ci aveva più nessuno di famiglia; l’Aspasia, dopo la sua vestizione, era come morta per lui; io ero un carissimo amico, mi avrebbe rivisto con tanto piacere; ma ero un giovinotto; potevo ben andare a cercarlo. Il bello si è ch’egli non mi dava nemmeno il suo indirizzo. Così la mia risposta non dev’essergli pervenuta. Ed egli non scrisse più e passarono gli anni senza che mi fosse dato saper nulla sul conto suo. Nella vita entrano ogni giorno nuove relazioni, nuovi interessi, nuovi affetti; altri legami si allentano, altre immagini si scolorano e a grado a grado svaniscono. Non dirò che questo accadesse in me dell’immagine di Licurgo Bertizzoni, ma è certo ch’io pensavo a lui sempre meno. Ci ripensai nel 1866, quando le sorti d’Italia s’agitarono nuovamente nel formidabile quadrilatero e nelle valli del Trentino. Bertizzoni era uomo capace d’essersi rimesso in ispalla il suo bravo fucile e d’aver intrapreso, magari da soldato semplice, questa terza campagna. Io avevo un bel dire che sacrosanti doveri domestici m’impedivano di fare altrettanto; lo ammiravo e lo invidiavo. Lo so; egli era un ingegno appena mediocre; non aveva mai avuto passione per lo studio; era un po’ leggero di carattere; ma che importa? Nell’ora del bisogno egli era sempre pronto a dare il suo sangue alla patria; mentre altri avevano in serbo delle ottime scuse per non rischiare la pelle. Nel periodo angoscioso corso fra il 24 giugno e l’armistizio, leggendo avidamente i giornali che ci arrivavano di nascosto d’oltre Po e d’oltre Mincio, io speravo e temevo ad un tempo d’incontrarvi il nome di Licurgo Bertizzoni. Speravo di vederlo citato per qualche atto di valore; temevo di trovarlo nella lista dei volontari morti a Custoza, a Bezzecca, a Monte Suello. Nulla. Egli non cercava nè la gloria nè la notorietà, e il silenzio compiacente si stendeva sopra di lui. Allorchè la liberazione del Veneto dal giogo straniero fu cosa sicura, io dissi: — Scommetto che adesso vedremo quel caposcarico di Bertizzoni, scommetto che uno di questi giorni mi capita una sua lettera. — Ma non capitò niente, e quando nell’ottobre e nel novembre 1866 mezza Italia si riversò sulle nostre lagune, Licurgo Bertizzoni non venne. Ne chiesi conto a molti Veneti, militari e non militari, rimpatrianti dopo lunghi anni d’esilio. Parecchi lo avevano conosciuto, nessuno era in grado di darmene notizie recenti. Non doveva aver partecipato all’ultima guerra. Nel gennaio dell’anno seguente fui costretto ad assentarmi per tre settimane. Reduce a Venezia, trovai sulla mia scrivania, insieme con altre carte, il biglietto da visita di Licurgo Bertizzoni con queste parole in lapis: Lascio i miei affettuosi saluti, dolente di non aver potuto abbracciare il vecchio amico. Riparto fra due giorni. Non ho domicilio stabile. Viaggio per conto di case inglesi. Forse tornerò presto, oppure scriverò.
I due giorni erano passati da un pezzo. Inutile cercare di Bertizzoni a Venezia. Nè egli aveva lasciato indicazioni sufficienti perchè si potesse cercarlo altrove. Diceva che forse sarebbe tornato presto o che avrebbe scritto. Tant’era aspettare.
Ma non tornò, non mandò una riga. Dov’era? Che faceva? Ancora una volta, nel 1870, se la memoria non mi tradisce, qualcheduno mi portò i suoi saluti da Messina dov’era di passaggio per affari, piuttosto male in arnese. Gli è che quei benedetti affari non andavano bene; non era contento del proprio stato…. Aveva in vista un impiego governativo.
E poi, dal 1870 fino adesso, vale a dire per ventidue anni, Licurgo Bertizzoni non s’era fatto vivo in nessuna maniera, e l’amico della mia adolescenza era disceso a poco a poco nella penombra discreta ove si aggirano tacitamente le memorie lontane. Ed ecco che oggi, d’improvviso, il suo nome risonava alle mie orecchie con un accento di commiserazione, ed egli, il camerata di scuola, il compagno delle prime scappatelle, egli stesso, ahi nascosto per sempre agli occhi degli uomini, forniva l’ultimo pellegrinaggio seguendomi alla distanza di forse duecento metri, mentr’io, in ossequio a una delle solite commedie sociali, rendevo gli estremi onori ad un morto che non avevo neppur conosciuto di vista.
Oh immensa malinconia delle cose! — Era qui da anni annorum, — aveva detto il fattorino della Banca. E io in questo frattempo avevo fatto certo una diecina di gite a Milano senza che mai mi passasse per la mente d’informarmi se Bertizzoni ci fosse…. senza ch’egli mai sapesse ch’io ero venuto, o, sapendolo, si curasse di vedermi. Forse ci eravamo incontrati per la strada, ci eravamo urtati col gomito senza ravvisarci…. Ma c’è di peggio…. Con la sicurezza ch’egli fosse a Milano credo che l’avrei cercato; ma se il giorno prima m’avessero avvertito ch’egli abitava a Monza, temo che non mi sarei spinto fin lì…. Mi sarebbero sorti mille dubbi. — Forse non è in paese e faccio il viaggio per nulla…. Forse lo secco…. Forse non si ricorda più…. sarà tanto cambiato….
Ora invece mi sembrava di vivere in quei tempi remoti. Rivedevo la povera casa a San Simeone Profeta, con le sue imposte sgangherate, col suo tralcio di vite che s’arrampicava lungo il muro, tra due finestre; rivedevo il maestro Agenore, tranquillo e sereno in mezzo ai suoi debiti; rivedevo la signora Palmira, piccola, asciutta, loquace, sempre in faccende; e la Cassandra co’ suoi occhioni neri, col suo busto da trasteverina; e l’Aspasia bianca, rosea, con un’aria civettuola che non lasciava certo presagire in lei la vocazione pel chiostro; rivedevo Socrate, il più maleducato della famiglia, ma non privo di spirito naturale. Ma sopratutto rivedevo lui, Licurgo, bello, grande, forte, spensierato, un po’ vanitoso pe’ suoi facili trionfi col bel sesso…. E mi pareva di averlo dinanzi nel giorno della sua partenza clandestina pel confine svizzero, insieme ad altri giovani ch’emigravano con lui. Egli, nella baldanza de’ suoi vent’anni, pronosticava il suo ritorno trionfale entro sei mesi….
Da quel giorno del gennaio 1859 era trascorso un terzo di secolo, e io non l’avevo più visto. Chi sa dopo quante peripezie, dopo quanti dolori e quante miserie egli arrivava oggi nel porto ove tutti dobbiamo arrivare!…
Pieno di queste immagini e di questi pensieri io avevo continuato a camminare macchinalmente accanto al carro funebre del commendator Baggi, e, senz’accorgermi, ero giunto al Cimitero Monumentale. Il carro si arrestò, si fece un gran silenzio. Un signore in occhiali, che seppi essere un assessore del Municipio, tirò fuori dalla tasca del soprabito un foglio di carta e lesse con voce monotona un breve discorso; un secondo borbottò alcune parole in nome della Camera di Commercio; un terzo portò alla bara il saluto del Consiglio d’amministrazione della Rete Adriatica; un quarto pianse per conto della Banca Generale. Io coglievo appena qualche frase staccata; la mia mente era altrove, il mio sguardo seguiva lontano l’umile convoglio del povero Bertizzoni che si dirigeva lentamente dalla parte opposta del Camposanto. Sentii corrermi due lacrime giù per le gote. Di tutti quelli che avevano accompagnato all’ultima dimora il commendator Baggi ero il solo che piangesse, ciò che costrinse i due nipoti ed eredi a portarsi, per pudore, il fazzoletto agli occhi.
E i due nipoti ed eredi mi strinsero vigorosamente la mano. — Grazie, grazie, signor…. E grazie a tutti i preposti della Banca….
La gente si disperse; si trattenevano ancora i soli parenti sino alla collocazione del feretro nella tomba di famiglia. Qualcheduno mi offerse ricondurmi in città in carrozza; io preferii d’andare a piedi, preferii d’esser solo.
M’avviai lungo il viale fiancheggiato da platani. Un fiacre che veniva anch’esso dal cimitero mi passò rasente. Ebbi una visione. Al finestrino di quel fiacre s’affacciò un giovinetto vestito a bruno, pallido, dalla faccia scomposta, ma bello, ma vigoroso. Era il ritratto preciso di Licurgo Bertizzoni, quale io me lo ricordavo a diciotto o diciannove anni. Vedendosi fissato, egli si voltò verso un amico o un congiunto ch’era con lui nella vettura. Dopo il primo sbalordimento, indovinai che quello doveva essere il figlio del povero Licurgo, il ragazzo impiegato alla Cooperativa. Ebbi un istante l’idea di chiamarlo…. A che pro? Per dirgli che un terzo di secolo addietro ero amico intimo di suo padre, e che poi me lo ero quasi interamente dimenticato?