Facevo una di quelle visite di convenienza che si fanno nel giorno in cui la signora riceve, il che vuol dire che, per quanto la signora sia spiritosa e garbata, una noia ineffabile è come disciolta nell’aria e la conversazione tira innanzi vuota, scucita, insipida, fra persone che si conoscono appena e che starebbero benissimo anche tutta la vita senza vedersi e senza parlarsi.

S’era discorso del freddo; d’una veglia in casa X….; del matrimonio della contessina Y….; dei five o’ clock teas della marchesa Z….; della malattia repentina e incurabile della signora K…. E dopo aver passato in rassegna varie altre lettere dell’alfabeto s’era venuti a trattar l’importante argomento dei teatri. Un orrore, una desolazione! La Fenice chiusa; un’operetta al Goldoni; un’operetta al Malibran; al Rossini una Traviata impossibile.

L’avvocatino Sironi, una tra le giovani speranze del foro, fece una smorfia. — Al Rossini non ci va un cane. Chi può andare ormai a sentir la Traviata?

L’avvocatino, si sa, non capisce e non gusta che la musica dell’avvenire.

Comunque sia, alla sua frase interrogativa nessuno rispose, neppur io al quale il giovinotto pareva essersi rivolto di preferenza. Non è poi necessario di rispondere a tutte le interrogazioni.

Però di lì a cinque minuti, uscendo dal salotto con la coscienza tranquilla d’un debitore che ha pagato una cambiale, il mio pensiero corse a un tempo lontano lontano quando nello stesso teatro, ove ora, secondo l’avvocatino Sironi, non andava nessuno, la Traviata, caduta l’anno addietro sulle scene della Fenice per cui era stata scritta, risorgeva splendidamente dalle sue ceneri e attirava ogni sera una folla entusiasta.

Tra quella folla c’ero anch’io, ragazzo di quindici o sedici anni, abbonato per la prima volta a uno spettacolo d’opera, e pieno di fervore religioso pel mio abbonamento. Non so quante rappresentazioni della Traviata si dessero nella stagione; so che a tutte io assistevo ritto in platea dall’alzarsi al cader del sipario; so che tutte le sere Violetta godeva, soffriva, moriva sotto a’ miei occhi senza ch’io mi stancassi di vederla godere, soffrire, morire.

E mentre bevevo come un liquore prelibato le facili, soavi melodie diffuse a larga mano nello spartito, coltivavo, insieme con parecchi altri abbonati, una passione ideale, purissima per la cantante giovine e leggiadra che trasfondeva il suo ingegno e l’anima sua nel personaggio della protagonista. Nè ciò basta. Fosse effetto dell’età o fosse effetto dell’opera, sentivo nascere in me una disposizione amorosa, che chiamerei generica, e guardando (senza canocchiale, perchè non lo possedevo) in giro nei palchi avevo slanci segreti di tenerezza verso tutte le signore zitelle o maritate che vedevo pendere intente dal dramma e dalla musica. E m’inebbriavo all’idea della colpa riscattata dai patimenti, e sognavo per mio conto le lunghe veglie al letto di qualche bella peccatrice ammalata di tisi…. che però sarebbe guarita e che io avrei redenta co’ miei baci.

In quel tempo appunto avevo il nobile proponimento di redimere una suonatrice ambulante di chitarra, e, nelle sere che non c’era teatro, la seguivo ai caffè e alle birrerie. Era grande? Era piccola? Era bionda? Era bruna?… Ma…. Non me ne ricordo. Mi ricordo che aveva nome Angelina e che le regalai, en pure perte, un fazzoletto di batista. Se non la redensi, non ho contribuito certo ad allontanarla dal sentiero della virtù.

Queste cose io ruminavo dopo la mia visita, e vi mescevo i soliti vani rimpianti del passato. O chi ci ridona le fresche impressioni dell’adolescenza? le speranze baldanzose, infinite? le ingenuità adorabili? le birichinate innocenti?

Una curiosità mi prese. Ecco, io dicevo, due parole gettate lì a caso, sono bastate a risvegliar nel mio spirito cento reminiscenze sopite. Non potrebbe, per un istante, il vecchio uomo rivivere in parte tornando sul luogo, riudendo le armonie che lo avevano affascinato, riassistendo al dramma che lo aveva commosso?

Tuttavia esitavo. Un’altra voce soggiungeva dentro di me: Perchè apparecchiarsi una delusione? Non si rivede impunemente, dopo un intervallo di alcuni lustri, ciò che si è molto amato. — Tentennai a lungo fra il sì e il no. Alla fine il sì prevalse, e a costo d’incorrere nella disapprovazione dell’avvocatino Sironi se veniva a saperlo, mi diressi, un po’ tardi, al teatro Rossini. Lo chiamavano di San Benedetto, ai tempi della mia famosa Traviata; ma l’atrio, la sala, la scena erano su per giù anche allora quello che sono adesso.

M’accorsi subito che il teatro, pur non essendo riboccante di gente, era tutt’altro che vuoto; solo ch’io non conoscevo quasi nessuno di coloro che c’erano. Il mio avvocatino avrebbe certo esclamato storcendo la bocca aristocratica: — Non avevo ragione io di affermare che ormai non si va più alla Traviata? Dio, che pubblico!

Come già notai, era tardi. Violetta aveva finito da un pezzo di folleggiar di gioia in gioia; aveva, in seguito alle istanze del barbaro padre di Alfredo, troncato bruscamente il suo idillio e beveva a larghi sorsi il suo calice amaro.

Ecco; dopo le zingarelle (ahi, quali zingarelle! ce n’era una alta come un campanile); dopo i mattadori; dopo l’infelice Alfredo tradito dall’amore e dalla intonazione; la povera Violetta, a braccio del suo tiranno, veniva alla festa mascherata in casa di Flora. Brillava, la casa, per quella deficienza di mobilio ch’è la caratteristica dei melodrammi e per quella mancanza di pareti laterali che rende altrettanto agevole il passaggio di cose e persone quanto incomprensibili le confidenze segrete e l’emozioni galanti. Appunto attraverso questi muri squarciati i servi portarono un tavolino, un tappeto verde, due candele e quattro sedie. E cominciò la scena del gioco in cui la musica esprime con rara efficacia il sarcasmo doloroso di Alfredo e l’angoscia di Violetta. — Pietà gran Dio, Pietà gran Dio, di me — cantava Violetta con un accento giusto, con una vocina simpatica; ma lui, disgraziato, aveva perduto la bussola e faceva d’ogni erba fascio.

Seguì il colloquio rapido, nervoso, fra i due amanti; lo strepitoso irrompere degli invitati; l’insulto supremo di Alfredo; il deliquio della donna oltraggiata; la sfida dei rivali; l’apparizione subitanea del signor Giorgio Germont, non si sa se disceso dal soffitto o emerso dal pavimento. Indi quel concertato finale di antico stampo, onde i solisti ed i cori si avanzano tutti in massa e paiono stiparsi contro il muro e volerlo abbattere con le loro grida.

Convenzione ridicola, non c’è che dire, ma chi bandirà la convenzione dal teatro sarà bravo.

A ogni modo, l’ultimo atto, specialmente se si consideri che l’opera fu scritta nel 54, è d’una modernità maravigliosa. Non sfoggio di virtuosità, non lusso di messa in scena; nient’altro che il dramma umano e casalingo dell’amore, della malattia, della morte.

Fin dalle prime note del soave preludio avevo dimenticato gl’interpreti per abbandonarmi al fascino della musica. E di mano in mano che la catastrofe si appressava, l’anima mia, come accordandosi con la musica, si sentiva avvolgere da una malinconia profonda, ineffabile. E sorgeva in me una folla tumultuosa d’impressioni, di pensieri, che non erano però le impressioni, i pensieri ch’ero venuto a cercare. Ero simile a un viaggiatore che ha sbagliato il treno. Credendo di prendere una corsa che mi riconducesse verso la mia giovinezza, ne avevo presa una che mi portava a gran velocità…. dalla parte opposta…. Dio, com’ero vecchio! Al paragone l’opera era una bambina. Certo le sue grinze le ha anch’essa, ma non langue ancora la vita che il grande artista le ha infuso; io, io sono vecchio.

È vero, sino allora non ci avevo badato. Non mi sembrava di aver l’età di Matusalemme; non avvertivo nessun accasciamento nel mio corpo e nel mio spirito; non sfuggivo la compagnia delle signore e continuavo a preferir quelle giovani e leggiadre…. Ma quella sera, ah quella sera una mano brutale mi strappò la benda dagli occhi.

Io pensavo: — Quando quell’altra Violetta mi inebbriava del suo canto, questa che va oggi tossicchiando sul palcoscenico non era nata. Non era nato questo Alfredo e neppure il padre di lui, dalla parrucca grigia e dalla barba posticcia. Non eran nate le poco avvenenti zingarelle della festa di Flora, nè i mattadori, nè il visconte, nè il barone, nè il dottore, nè la cameriera, nè, tranne rare eccezioni, i cosidetti professori d’orchestra. Che se poi mi voltavo dalla parte del pubblico arrivavo, su per giù, alle identiche conclusioni. Non che mancassero in teatro persone della mia età o di età superiore alla mia; ma erano una piccola minoranza. Due terzi almeno degli spettatori appartenevano alla generazione successiva; erano, nei giorni della mia adolescenza, un popolo di fantasimi accalcantisi in silenzio nel vestibolo della vita. Fantasimi quei giovinotti sdraiati sulle poltroncine; fantasimi quelle ragazze che i babbi non avrebbero accompagnate alla Signora delle Camelie ma accompagnavano alla Traviata perchè la musica copre tutto col suo velo pudico; fantasimi quelle Traviate autentiche che sporgevano il viso imbellettato da un palchetto di terza fila…. Dov’erano coloro che avevano, trentasette o trentott’anni or sono, palpitato, applaudito con me? Quegli uomini, quelle donne le cui pupille s’erano inumidite con le mie, i cui cuori avevano battuto all’unissono col mio cuore? Quanti ne aveva dispersi la fortuna, quanti ne aveva falciati la morte? E se pure, per caso, uno se ne trovava quella sera in teatro sentiva forse ciò ch’io sentivo?

Mi pareva d’essere il superstite d’un mondo defunto, mi pareva che tutti gli occhi dovessero piantarmisi addosso come sull’esemplare abbastanza ben conservato d’una razza scomparsa.

Per liberarmi da quest’incubo uscii dalla sala prima che l’opera finisse, e l’aria rigida della notte invernale dissipò le ombre, ristabilì l’equilibrio del mio spirito. Ero stato punito del mio tentativo di riafferrare, sia pure per un istante, la gioventù; ma non ero uno spettro, ero un uomo in carne ed ossa, ero ancora un vivo tra i vivi, avevo ancora, per poco o per molto, il mio posto, avevo ancora, piccolo o grande, il mio còmpito.

No, la gioventù non si riafferra; ma c’è qualche parte di noi che può restar giovine sempre finchè coltiviamo in noi stessi con tenera sollecitudine la pianta gentile della simpatia, la fiamma purissima dell’entusiasmo, finchè teniamo alto lo sguardo inseguendo amorosamente le visioni consolatrici del bello.

E mentre io ricuperavo così il senso della realtà mi si levava dinanzi la figura austera e luminosa del maestro insigne che da oltre a mezzo secolo sparge nel mondo le inspirate armonie. Lui non fiaccano gli anni, non distraggono i rumori della folla, non rode il tarlo della vanità e dell’invidia; a lui parlano due sole voci nel cuore: l’arte e la patria. Possa a lungo vibrar nelle sue mani l’arpa potente che raccolse i gemiti dei salci babilonesi e il murmure delle foreste d’Etiopia, che prestò le sue note allo strazio di Rigoletto, ai singhiozzi di Violetta, ai furori di Otello, al cinismo di Falstaff!