Il reverendo rettore levò, finalmente, il naso da una scodelletta, in fondo alla quale il suo grosso indice aveva, diligentemente, ripescate, tra il caffè al latte, le ultime miche di pane. Nel silenzio della sagrestia si manifestava la soddisfazione di lui con quel romore del naso particolare dei tabaccosi che fanno il chilo, con un sordo gorgoglio della strozza, ronfante di compiacenza e di respiro che non trova libera la via.
— Sentiamo. Mai arrestato?
Era davanti a lui un piccolo uomo, orribilmente magro, pallidissimo, brutto, dall’aria così malata, così triste che il rettore, una persona grassa e piena di salute, aveva terminata in fretta e furia la sua colazione, temendo di doverla interrompere per mancanza di appetito. In verità nulla di più languente di quel piccolo uomo, che aspettava, impiedi, col cappello tra le mani esangui, tossendo, di tanto in tanto, a colpetti brevi e secchi, la faccia volta alla grande scansia dello stanzone. Rispose:
— No, signor rettore.
— Sai leggere?
— Sì, bene.
— E scrivere?
Lui accennò ancora di sì, con gli occhi.
— Sta bene, — disse il rettore, levandosi, — vieni un po’ a vedere la chiesa….
Lui, mentre il prete s’avviava, fece per rimettersi il cappello, con un moto involontario.
— Be’, — disse il prete, — cosa fai? Siamo in chiesa.
Balbettò qualche scusa, arrossendo. Il rettore si soffiava il naso e svegliava l’eco della grande navata. Lentamente, si fermava qua e là, davanti agli altari, alle pilette dell’acqua benedetta, agl’inginocchiatoi su’ quali stratificava la polvere.
— Qui bisogna passar lo straccetto ogni giorno. Qui lavar con l’acqua di tanto in tanto. E i candelieri! Mi raccomando assai pei candelieri. E quando sono accesi badare che non mi brucino i quadri. Guarda, quest’è opera delle fiamme de’ candelieri….
Con l’unghia dell’indice raschiò appiè d’una Purificazione della Vergine. Era una pittura su rame. Il colore si staccava, carbonizzato.
— È un peccato, — mormorava il prete, — e ogni tanto ho da sentirmi i pistolotti della commissione pe’ monumenti.
Nella desolazione delle sue rovine, deserta e fredda, la chiesa invecchiava in un silenzio di morte. Era una chiesa gotica, sulla quale tutte le epoche avevano infierito, e più di tutte il seicento. I finestroni archiacuti erano ridotti a sagome inestetiche, gravati di fregi, inquadrati da cornici di stucco, da fronzoli e rosoni. Il medio evo, sotto la sgraziata sovrapposizione, fremeva; la pietra grigia pareva che, negli spasimi dell’insofferenza sua, volesse liberarsi dal calcinaccio odioso. Lo aveva fesso; serpeggiavano qua e là spaccature profonde e nere. L’invasione non aveva nulla risparmiato; sotto all’intonaco sparivano le fini dorature d’un capitello, si affollavano d’angioli ricciuti e ben pasciuti le vôlte a crociera delle cappelle e, scambio delle severe lastre di marmo, sul pavimento correvano file disordinate di mattoncelli. Della tomba del fondatore della chiesa i francesi del novantanove avevano fatto abbeveratoio di cavalli: quegli stessi francesi che ad una cappelluccia della Madonna strapparono pur un trofeo d’azze e di barbute, memoria di Lepanto. Il sarcofago, di cui penetrava nel muro una parte, attorno al coverchio aveva una iscrizione in lettere gotiche, e, a tratti, le lettere sparivano, poichè la polvere secolare ne aveva colmati i solchi.
Dietro il maggiore altare la morte era spaventosa. Si sfasciava il coro, si coprivano di polvere gli stalli deserti, e il legno si torceva nell’umidità, convulsionato come in riso doloroso, mostrando per lo spaccato chiodi ritorti e brani di vecchio legno.
Lungamente, come il rettore lo aveva lasciato libero, il novello scaccino rimase in contemplazione del coro, conquistato dalla varietà strana di tante minute pitture, che sopra ogni stallo, nell’inquadratura a rabeschi, ricordavano santi, o patriarchi, o assunzioni e martirii di vergini. Su quel del priore un barbuto Simeone circoncideva un piccolo Gesù, reggendolo in una grossissima mano, con, a lato, la Vergine e il falegname Giuseppe, dalla bianca barba spiovente. Il cinquecento avea profusa tutta la sua erudizione architettonica in queste fredde pitture, di cui i tratti avevano durezza d’incisione e austero segno ingenuo. Colonnine ed arcate a sfondo interminabile, peristilii eleganti, fregi a serpi e ghirigori; non uno sfumo, nessun’ombra. Eran monaci ossuti dalla deforme testa rasa sulla quale, a uno a uno, si potevano contare i capelli aggiustati in aureola; monaci dal collo taurino, dagli occhi astratti, le dita curiosamente sbucanti dall’intreccio delle mani in preghiera, le unghie accuratamente segnate dal paziente artista. Erano martiri beatificati, dalle lunghe facce piagnucolose, dalle vestimenta orlate di stelle; erano pargoli nudi che avevano piedi d’uomini fatti.
Le pitture diventavano rosse, si staccavano dal legno, e delle lunghe righe di puntini neri segnavano il passaggio dei tarli. Cominciava il banchetto de’ tarli a sera e, nel grave silenzio, pareva che un’unghia umana lievemente grattasse sul legno.
Lo scaccino si dimenticava, assorto. Di tratto in tratto, all’altro capo della chiesa, cadeva un pezzetto di travicello roso, un frantumo, dall’organo sconnesso, e una lieve nube di polvere si diffondeva intorno. Pei finestroni sconquassati piovevano ombre fitte, che più s’addensavano. Era l’ora in cui la chiesa si concedeva all’oscurità.
Lo scaccino rientrò in sagrestia. Il rettore si spazzolava, chiacchierando con un altro prete del quale un’ombrella enorme gocciolava sul pavimento.
— Manco male — diceva il rettore — che siete arrivato voi, don Enrico. È il Signore che vi manda.
— È stata un’ispirazione, rettore. Pareva che una voce mi dicesse per la via: Va, chè il rettore non ha ombrella.
Rise, mostrando una sconcia fila di denti giallastri. E levò gli occhi al finestrone:
— Piove a rovesci.
Il rettore mormorò:
— Ah! Signore! Sia fatta la tua volontà!
Poi, come lo scaccino aspettava, impiedi:
— Siamo intesi, tu, non è vero?
— Sì, signor rettore.
— Ora vattene, ora non c’è da far nulla. T’insegno a chiuder la porta. Domani bisogna trovarsi in chiesa alle sei….
Uscirono. Lo scaccino, accomiatandosi, baciò la mano al rettore, e rimase ad aspettare che la pioggia finisse, addossato a una bottega chiusa, mentre il prete si cacciava sotto l’immensa ombrella del suo amico e s’allontanava, galoppando nelle pozzanghere.
II.
Questo piccolo uomo si chiamava Gabriele. Ma intorno al bel nome angelico era tutta una oscurità. Vagamente il ricordo della fanciullezza s’affacciava, ne’ lunghi intermezzi di silenzio dell’anima che, di tanto in tanto, conquistava la inutile creatura, prima di metterla nella malinconica imprecisione del passato. Nel passato era un freddo di persone e di cose, un mistero, un muto dolore continuo. La scuola infantile senza sole, senza amicizie infantili, senza premii; nel verno, una stanza paurosa in un palazzo buio, un cattivo odore insistente, da per tutto e le scarpe fradice nelle quali i poveri piedini gelavano. Poi la miseria, la triste miseria senza risorse e una peregrinazione per case che lui non sapeva ed ove la madre scompariva, lasciandolo, aspettante, nel cortile. Ella si chiamava Cristina. Or, invecchiata rapidamente, pallida, debole, aveva soltanto conservato nella orribile caduta il fosco lampo di due occhi pieni d’anima e due labbra sottili e brevi che ancora sapevano maledire. Aveva fatta una gran passione ed era stata abbandonata col figliuolo. Rubata a due poveri vecchi, de’ quali codesta infamia aveva affrettato la morte, ella avventava lo sguardo in tanto orrore di cose, meditando, col gomito sulla tavola zoppa, col mento nella mano, sulla fatalità di questa uccisione lenta e sicura, la quale sterminava tutta una famiglia. Un sol uomo aveva ferito, ed era scomparso. Mentre i colpiti scendevano un dopo l’altro nella tomba, ella, che pur ne faceva la strada, lo malediva, profondamente.
A Gabriele serpeva nelle vene il sangue malato e fremente della madre. Nelle collere prorompenti contro le nervose volontà di quella donna egli si mordeva le braccia e urlava, gli occhi pieni di lacrime, le gote accese da tutto quel po’ di sangue che gli restava. E Cristina, cupa, lo contemplava, dal letto ove il suo male l’aveva inchiodata, il male orribile della famiglia, implacabile.
Il rettore lo avea preso per fargli custodire la chiesa; e da scaccino Gabriele era diventato custode, a poco a poco, perchè il prete era avaro e le entrate impoverite non bastavano a mantenere due persone per due ufficii diversi. Gabriele non si rifiutò. Soltanto chiese un po’ di denaro avanti, pei bisogni della famiglia. Il rettore rispose che non poteva.
Il sagrifizio del poveretto cominciò in una piovosa mattina di gennaio. Da prima la chiesa, piena di calma e di silenzio, gli mise una strana pace nell’anima. Da un capo all’altro la visitò curiosamente, perdendosi in laberinti di corridoi scuri e freddi ove non era mai penetrato il lume del sole. All’imbrunire, quand’essa rimaneva deserta dei pochi devoti che ogni giorno venivano a pigliarvi un’infreddatura, egli passava in sagrestia e vi metteva in assetto le vesti sacre, strofinando lo straccetto sulle scansie macchiate d’umido e di polvere, e spazzolava i berretti, e passava in rivista le rotonde scatoline delle ostie, tentato da alcuni superstiti pezzettini di esse. Di tanto in tanto riposava, addossato allo stipo, le labbra chiuse, la faccia anemica tutta compresa di quell’aria scema che hanno i bevitori d’assenzio, in meditazione di nulla. Poi si metteva a sedere, stanco, nella vecchia seggiola del rettore, dal cuoio nero tutto consumato che di sotto agli strappi mostrava la imbottitura di stoppa. E vi rimaneva assorto, mentre dalla vicina stradicciuola, sulla quale davano i finestroni, il cadenzato tintinnio del ferro, che un magnano batteva sull’incudine, lo cullava con un tremolio di vibrazioni morenti. Non uno strepito, a volte, non un soffio turbavano l’indefinibile silenzio del luogo. Egli si raggomitolava nella seggiola a bracciuoli, figgeva lo sguardo sulla porticella schiusa che metteva in chiesa e che, per la fessura, dava passaggio a un po’ di luce. Una bianca striscia s’allungava sul pavimento della sagrestia, già perduto nell’ombra, mentre annerivano nella notte, sulle pallide pareti, i grandi armadii in giro. L’ultima luce penetrava dal finestrone di faccia a lui e debolmente arrivava fino a quella opposta alle vetrate. Una corda, che pendeva dal soffitto, si dondolava, lievemente.
Tre mesi gli parvero tre secoli. Soffriva ora orribilmente: l’umido lo avea tutto fradicio dentro; gli passava le ossa, gli dava brividi e febbre. Cadde, una volta, a piangere sull’inginocchiatoio, la testa arsa, invocando Cristo a gran voce.
III.
L’ultimo giorno di marzo Cristina morì, guardandolo ostinatamente, ancor dopo morta, co’ grandi occhi sbarrati, la bocca schiusa, come se volesse chiamarlo. Egli la baciò sulla gelida faccia e svenne sul letto. Rientrato in se stesso trovò i vicini che chiacchieravano e aprivano le finestre e bruciavano zucchero. Cristina l’avevano acconciata alla meglio sul lettuccio, cacciandole sotto il capo due origlieri, spianandole le ginocchia, incrociandole sul seno le mani. La morte rendeva ubbidiente quel corpo.
— Sentite, figlio mio, — disse a Gabriele una vicina, — meglio è che andiate a pigliare un po’ d’aria fuori di casa. Qui state male. Dio se l’ha voluta chiamare.
Lo spinse dolcemente fino alla porta. Lui si lasciò fare, le braccia penzoloni. Si trovò nella via senza saper come, si trovò incamminato alla chiesa, inconsciamente.
Piovigginava fitto e nel tempo uggioso la gente tirava innanzi silenziosa, scantonando. Schioccava, di tanto in tanto, una frusta e un cocchiere sferzava, bestemmiando, la sua rozza, sferzato lui stesso in faccia dalla pioggia. Sulla porta della chiesa un mendicante stendeva la mano a’ passanti.
Gabriele aveva in saccoccia la chiave della porta piccola. Fece il giro della chiesa, entrandovi da un vicoletto. Essa era sepolta in una quasi oscurità che la immergeva in un ignoto misterioso e profondo; il grande altare si fondeva vagamente con l’ombra, e in quella sparivano i suoi larghi gradini. Ancora si diffondeva nell’aria un profumo leggerissimo d’incenso.
Lo scaccino entrò nella sagrestia. Lo assaliva il desiderio di trovarsi solo in questa santa pace, di sfogarsi liberamente tra questi bianchi muri pietosi. S’inginocchiò. Tornavano, co’ ricordi imprecisi della fanciullezza, le prime preghiere e gli morivano sulla bocca, rotte dall’impetuoso delirio dell’anima e dal dolore del corpo. Era, tra rantoli soffocati, una frenesia di pianto e di parole sconnesse e supplichevoli.
Di colpo egli si levò, volse intorno gli occhi sbarrati. Lo avvolgeva l’oscurità, un buio così fitto ch’egli non ebbe il coraggio di moversi, temendo di precipitare in abissi che le tenebre gli nascondevano. Soffocava; s’era levato per cercare acqua e non ricordava più ove fosse la vaschetta di marmo.
Stese le mani brancicando….
Poi riescì a gridare:
— Aiuto! Aiuto!…
La stessa sua voce aumentò il suo terrore. Barcollando, mentre il sangue gli saliva a fiotti alla bocca, trovò la porta della sagrestia, uscì nella chiesa, afferrò la fune della campanella.
Nel silenzio vibrarono due o tre rintocchi. Egli aveva battuto con la faccia a terra. Aveva annaspato qua e là con le dita raggranchite, poi non s’era mosso più. La campanella vibrava ancora. Finalmente pur quel debole suono si spense….