Nel maggio, mentre al più piccolo alito di vento le rose tenerissime concedono le foglie loro, disseminandole appiè d’un amoroso mandorlo ancora in fiore; mentre da per tutto ov’è collina, o giardino, o praticello passeggiano gravemente al sole gli scarabei, e sbadigliano, alta la testa viperina, le lucertole verdi; mentre il bosco è tutto in chiacchiere di uccelli gelosi e si spande per la fresca campagna l’indefinibile susurro degli insetti e una scia d’argento solca, sul cammino lentissimo della lumaca, un muretto nell’orto, mentre tutto questo, ch’è poesia dolcissima nell’aria buona e dolce, succede lontano dalla città romorosa, qui la prosa cittadina va trascinando per le vie cenci e vecchie suppellettili borghesi, sciorinati al sole di maggio tra il polverio, le bestemmie dei facchini e il loro copioso sudore di bestie affaticate. Si compie di questi giorni la frettolosa bisogna dello sgombero, ed è un transito incessante di cose che parlano, un viaggio di segreti, trabalzanti su pel rotto selciato napoletano. Il lettuccio, la spinetta antica, la poltrona favorita, il boccaletto a fiori ove così spesso l’amata ha bevuto i pensieri dell’amante, il misero lume a petrolio onde furono rischiarate, presso agli esami, le veglie laboriose d’uno studente di medicina, la gran seggiola a ruote d’un paralitico, il canterano da’ foderi cigolanti in fondo ai quali ammucchiò tutto un tranquillo epistolario amoroso la fiamma d’un impiegato alla Ferrovia, lo spiumaccino invernale, ricordo della povera mamma morta, che usava di tenerlo sui piedi — tutto ciò trascorre innanzi agli occhi, nel sole, e cammina, e muta posto e va altrove, e passa da una luce d’un quinto piano all’oscurità di un pianterreno, o dal buio al sole, chi sa dove, chi sa dopo che amari rimpianti, e scompare.

Or, sopra uno di questi carretti scricchianti, tra molte scatole da cappelli e un mucchio di cuscini, viaggiava una gabbietta. Dentro alla gabbietta era un canarino giallo. Le suppellettili mutavano posto; alla casa nuova la gabbiuzza fu appesa nel tinello che dava in un giardino. Di rimpetto, dietro certe grate fitte, si vedevano confusamente soggoli biancheggianti; c’era un antico monastero. Il figlio della signora, un ragazzo che odorava di poesia, appena fu alla nuova casa e, per la finestra del tinello, vide le monache, fu preso da un impeto sentimentale e stampò una sessantina di versi claustrali in un giornaletto letterario.

Il povero canarino, poeta pur lui, era stato tolto piccoletto al nido, e più non ricordava dove e come. Ricordava senza precisione certo aggrovigliamento di rami e di fronde, una fiorita stesa di piano, un gran pezzo di cielo azzurro — niente più. L’adozione era stata larga di cure e, dapprima, dolce fu la prigione. E lì, come se fosse stato a San Pietro a Maiella, il canarino diventò un cantore elegantissimo, una specie di tenorino di grazia.

— Bene, bene! — esclamò il marito della signora. — Ecco il canarino che comincia a dirci qualcosa.

E ogni volta che si trovava nel tinello a lavarsi la faccia, gli faceva lo zufolo col tovagliolo fra mani.

La casa dalla quale era sloggiato era scura e silenziosa. Le finestre non davano sulla strada, riuscivano in un cortile abbandonato, dominio di terribili pipistrelli, qualcuno de’ quali perfino veniva a sbatter l’ali intorno alla gabbiuzza, dove il povero canarino tremava di terrore. La bestiola, di sotto l’arco della finestra, non vedeva che i muri grigi del cortile dagli angoli ch’erano dominio di polverose ragnatele, da’ buchi neri che a notte diventavano case di nottole. Le carrucole nei pozzi stridevano, le secchie si urtavano; le serve, a prima ora, trovandosi tutte ad attingere, dicevano male della gente, appiccicando a ognuno un aggettivo che metteva in tutto il pozzo il suono di goffe risate. Questa la vita del cortile. Una volta solamente il canarino uscì dalla sua malinconia. Una delle fantesche ripuliva la gabbia d’un altro canarino, lasciando cader giù nel cortile le boccate sfuggite del miglio, i rifiuti del prigioniero, e canticchiando. E come quell’uccelletto, per la soddisfazione del miglio fresco e dell’acqua pulita, metteva, di tanto, piccoli gridi acuti, quest’altro credette di aver trovato finalmente qualcuno col quale potesse chiacchierare nelle ore di noia.

Lo chiamò allora due volte.

— Zizì! zì! zì! zì!…

Quello rispose allegramente:

— Zì! zì!

Poi vi fu un silenzio. La serva aveva portato via la gabbia; il povero canarino, disilluso, ricadde in malinconia e non avendo da far altro si rimise a contemplare i muri del cortile.

In una giornata di novembre fu tale lo scrosciar della pioggia furiosa e così spaventevoli furono i lampi e i tuoni che il canarino, solo solo nella gabbia, credette che l’ultimo giorno della sua vita fosse arrivato. Dal lampeggiare continuo era tutto illuminato il cortile, i ferri della gabbia pareva si arroventassero. Poco dopo accorse la serva, che avea lasciate aperte le vetrate della finestra.

— Meno male! — esclamò. — I vetri non si sono rotti! E chi l’avrebbe sentito il padrone!…

Mio Dio, nemmeno una parola per quella povera bestia tremante di freddo e di paura! Bella carità cristiana! E così il canarino, a poco a poco, s’abituò ad ogni sorta d’ingenerosità. Nessuno si pigliava pena di lui, ma nessuno, tuttavia,  lo veniva a seccare. Meglio così. E il suo amico divenne un pezzo del muro di faccia, ove un ragno intesseva comodamente la sua tela. Nell’estate, quando un po’ di sole fece la spia nel cortile, la tela ne fu tutta illuminata e il ragno vi passeggiò in lungo e in largo, con una grande boria di padron di casa. In tutto il giorno si riudivano le voci delle fantesche, lo strepito delle cazzeruole, risate lunghe e sguaiate, scoppiettii di carboni dalle fornacette. La musica metteva in allegria il canarino che, a volte, vi mescolava certe note acute e un trillo per cui le serve, meravigliate, tacevano.

Una di loro, mentre lui si sfogava, esclamò:

— Bravo, e che bella vocetta!

La lode, Dio buono, se la pigliano tutti, la desiderano anche i modesti. Il canarino si guardò i pieducci, ripulì il becco a un ferro della gabbia, si piantò saldo sulle gambette e si mise a cantare:

Se il mio nome saper voi bramate….

***

A maggio, come v’ho detto, i signori della casa sloggiarono.

La primavera sospirava più forte con gli spasimi dei fiori, col susurro delle piante in amore, e nell’aria salivano odori soavissimi e freschi soffii di zeffiri. In una bella giornata profumata si svegliò il canarino a un pispiglio sommesso.  Una passera aveva fatto il nido di rimpetto. Poi furono piccoli gridi di compagni liberi che passavano; furono a volte cicalecci impertinenti di rondoni in chiacchiere sui tetti. I rondoni, al solito, dicevano male del vicinato. Quello era bello, quell’altro era brutto, la tal signorina non sapeva cantare, il violinista del quinto piano pigliava acuti stonati, il portinaio non badava troppo alla figliuola. E il giardino si svegliava all’alba con questi discorsi di uccelli, con le loro querele peripatetiche, con ronzii d’insetti invisibili e voli di bianche farfalle.

Il canarino ebbe da tutta questa vita, che gli ricordava indefinitamente il bosco e l’odore acre delle piante, quella malinconia dei ricordi che, si dice, tornano nel tempo della disgrazia. N’ebbe singhiozzi di rimpianti e di desideri che gli rompevano il canto nella gola. E gli cominciarono a cadere le penne. Una si posò sul davanzale della finestra e un colombo se la venne a pigliare.

— Scusate, amico, — gli chiese il canarino dalla sua gabbia, — siete di questi paraggi voi?

— Eccóme! — rispose il colombo. — Gli è qui che son nato. Guardate laggiù accosto alla grondaia. Vedete voi quel buco nero nero? Lì ho fatto il nido. E questa penna che vi è caduta, se permettete, la metto al lettuccio dei miei piccini. Vi dispiace?

— Anzi, — disse il canarino, — fortunato se divento materasso. Ma, sentite, verrete voi a tenermi compagnia qualche volta?

— Perchè no? — disse il colombo. — Di questi giorni non posso; ho i piccini, udite voi come chiamano?

Il canarino non udiva nulla.

— Eh! — fece il colombo. — Li odo io, li odo! Quando avrete figli anche voi! Arrivederci.

— Arrivederci.

E quasi ogni giorno lo stesso colombo veniva a pigliarsi una penna caduta.

— Fatemi la finezza, — gli chiese una volta il canarino, — sapreste voi perchè così spesso mi cadono le penne? Io ne sono assai preoccupato.

Il colombo lo guardò malinconicamente.

— Che volete vi dica?

E non gli volle dire che gli anni e i dispiaceri sogliono fare di questi scherzi.

Passò un mese. I piccini del colombo s’erano fatti grandi e strillavano, sporgendo dalla buca le testine ancora spelate. Attorno a quel nido altri nidi si destavano all’alba e un pigolìo continuo succedeva sino a quando l’appetito dei piccoli colombi non era soddisfatto. I colombi grandi tubavano all’ombra, empiendo il cortile della dolcezza dei loro amori.

In luglio il colombo grigio si ricordò della conoscenza. Ma in quella mattina avea avuto tanto da fare e s’era così impensierito di certi muratori che erano venuti a mettere scale sui muri, presso i nidi, che la visita dovette farla a sera quando i muratori se n’erano andati.

C’era una luna bianca che faceva capolino di su il belvedere delle monache.

— Buona sera, — disse il colombo. — Come state? Sentite che bell’aria fresca?

— Ahimè! — disse il canarino. — Se sapeste, amico mio! Da tempo in qua sono colto da tale tristezza che a momenti mi pare di morire. Mi spoglio ogni giorno più e mi pigliano brividi di freddo, ed anche provo una grande debolezza. Come mai questo, caro amico?

— Cosa volete che vi dica? — rispose il colombo, con gli occhi bassi. — Io son qui di rimpetto, se mai.

E se ne andò, ammalinconito pure lui.

Poi tornò dopo una settimana. La gabbiuzza era vuota. Ma c’era ancora, sulla finestra, una ultima piuma gialla. Il colombo non ebbe coraggio di portarsela via.

E c’era un chiaro di luna quella sera, un chiaro di luna così grande, così grande!…