Aggio fatto n’ato penziero

arrubanno nun vogl ‘i cchiù,

Vaco sempe carcerato

‘A casa ‘e mamma n’a veco cchiù!…

Canzone di carcerati.

Ciro lo arrestarono l’ultima sera di dicembre. Fu un siciliano magro e caparbio dell’ambulanza notturna; gli aveva messo l’occhio addosso da quando successe l’omicidio di Carmine il rosso che nessuno mai ne seppe niente e il delegato del Pendino si mordeva la polpa delle mani, sfogandosi con gli appuntati che andavano acchiappando chi meno ci aveva che fare. Ora il siciliano s’era pigliato la rivincita e bisogna dire che l’aiutasse il diavolo del paese suo con quel Ciro che gli sgusciava sempre dalle mani come un’anguilla. Lui quella sera se ne andava assaporando un sigaro, col cappelluccio di sghembo e il bastone animato sotto al braccio. Di colpo sentì un correre precipitoso, un grido: arresta! arresta!, e Ciro gli venne proprio di faccia che divorava la via. Era stato un bel colpo, altro! Aveva strappata la catenella d’oro a un grosso borghese, che giunse poco dopo affannando e non potette raccontar nemmeno come fosse andata la cosa, tanto la voce gli s’era affiocata pel gridare che aveva fatto.

Il siciliano si prese Ciro sotto al braccio e non disse mezza parola per tutta la via. Ma come arrivarono in Questura e gli aprì il cancello della guardina, lo spinse denaro, sferrandogli un calcio nella schiena.

— Va muori, schefiuso! — esclamò, e gli sbattè in faccia il cancello.

Ciro lo guardò attraverso l’inferriata; una vampa di collera gli salì alla faccia e fu a un pelo di rispondergli. Ma, come l’altro se n’andava tranquillamente, strascicando la punta del bastone sul selciato, quello che gli voleva dire gli morì sulle labbra. Gli tenne dietro con l’occhio invelenito sino a quando si perdette nell’ombra, rasentando la scala grande di cui biancheggiavano i primi gradini di marmo sporco. Poi, lentamente attraversando il corridoio scuro, Ciro fece due passi e si trovò in guardina.

— Buona sera a tutti, — brontolò, con le mani in tasca.

Una voce rauca rispose: buona sera; e per un pezzo cessò il rumore di una moneta che un ragazzetto, seduto per terra, faceva rotolare fra le gambe allargate. Non ci volle molto perchè Ciro facesse l’occhio a quella semi-oscurità della stanzuccia; la guardina la sapeva come casa sua e questa era la quinta volta che vi avrebbe dormito. Soltanto gli entrava la malinconia nell’anima a vederla così deserta e silenziosa. Una vera miseria; due compagni che non gli badavano nemmanco. Il ragazzo ricominciava a giocare col soldo, mentre dei piccoli brividi di freddo gli salivano pel corpo. L’altro, seduto sulla panchetta con le spalle al muro, aveva chinata leggermente sul petto la testa: forse pensava a’ guai suoi o s’era messo a sonnecchiare. Da un angolo, ove il muro faceva gomito, la lucernetta appesa nella stanzuccia spandeva intorno una luce rossastra di cui la povertà lottava a sprazzi subitanei e brevi con la tenebra degli angoli, con le oscurità fitte dei vuoti ove, fondendosi, la parete spariva. A volte, d’un subito l’aria si appesantiva; nell’afa tormentosa passava con una folata irrespirabile il puzzo forte ed acre della latrina, che pungeva le nari.

— Cristo! — fece quello della panchetta, che s’era levato e passeggiava con le mani dietro la schiena, — ci hanno pigliati per cani, ci hanno pigliati! Chi vuol morire di subito ha da star qui una nottata.

— A chi lo dite? — sospirò Ciro che si era messo a sedere sul tavolaccio e masticava un mozzicone, sputacchiando al muro. — poveri i figli di mamma che ci capitano!

L’altro seguitò a misurar la camera brontolando, poi disse:

— Manco male che poco ancora ha da durare l’incomodo….

— Uscite a libertà?

— Già, domani.

— Io pure! — esclamò il ragazzo che s’era avvicinato al tavolaccio.

— Che figlio di mala femmina! — soggiunse quello della panchetta, ammiccando al monello che s’era ficcato in mezzo al discorso. — L’hanno acchiappato che giocava a zecchinetto e aveva tre fazzoletti addosso….

— Non è vero! — protestò il ragazzo, passando sotto al naso la manica della giacchetta, — i fazzoletti se l’hanno inventati loro; m’hanno preso perchè sono vagabondo e non ho mestiere….

Mentiva, con la sua spudoratezza di fanciullo viziato, senza levar gli occhi che aveva neri e profondi, acconciandosi addosso gli stracci unti che ad ogni strappatura lasciavano veder la carne di sotto. Succedette un silenzio. Ora nell’ombra si esaminavano a occhiate rapide, si riconoscevano nell’impronta di malizia e di sospetto che dava la mala vita alle loro fisonomie.

— A me, — disse quello della panchetta, — m’hanno preso per sbaglio. Qualcuna n’ho fatta anch’io e per questo…. Ebbene, che volete? Nella gioventù non s’ha mai la testa allo stesso posto, e poi quando ho bevuto un bicchiere soverchio…. Ma stavolta, com’è vero Dio, non ho fatto niente, m’hanno preso perchè m’hanno voluto prendere. C’è il delegato che s’è messo in capo di volermi tribolare….

— Uh! — strillò il ragazzo. — la lucerna si smorza!

Difatti il lucignolo crepitava, lanciando nel muro di faccia le sue ultime fiammate rosse, agonizzando nella spira di fumo denso e puzzolente che serpeva pesantemente nell’aria. Essi guardavano, seguendo quella vana lotta con le tenebre che trionfavano a vista, avanzando nella camera. Di colpo il lucignolo si spense, l’oscurità divenne profonda.

— Buona notte ai suonatori. — disse Ciro, con un riso ironico.

Stese la mano tastando; gli venne sotto la faccia magra e fredda del ragazzo che si era stretto al muro tutto pauroso. Il ragazzo, rabbrividendo, mise un piccolo grido di terrore.

— Chi è? — disse Ciro. — Sta zitto…. Per lo meno crederanno che t’ammazziamo…. Dove sei?

— Qua, — piagnucolò il ragazzo senza muoversi. — Non ci vedo più.

— Si capisce, — fece Ciro con la voce ridente, a rassicurarlo. — O che vorresti aver gli occhi del gatto, tu? Non aver paura, dammi la mano che ti metto sul tavolaccio…. Come ti chiami?

— Peppino, — balbettò il monello nell’oscurità.

— Va bene…. Hai sentito?… Peppino? Dammi la mano….

Quello gliela stese; tremava tutto. Ciro lo tirò dolcemente sul tavolaccio e lo allungò nell’angolo, mettendogli la giacchetta sotto alla testa.

— Va bene? T’ho fatto anche il cuscino. Ora hai paura?

— No, — disse il ragazzo, guardando innanzi a sè nel buio, con gli occhi spalancati.

Poi a poco a poco, nel silenzio, il sonno li vinse. Quello della panchetta non s’era più mosso, russava con la testa abbandonata, le braccia in croce, le gambe stese, nel suo cantuccio, sotto alla finestra. E non vi fu più un rumore; solo dal cortile saliva di tanto in tanto il suono cadenzato e secco del passo della sentinella sul selciato.

Ciro per un pezzo era rimasto a occhi aperti, allungato sul tavolaccio accanto al fanciullo dormente di cui gli passava sul viso l’alito tepido in un respiro debole ed eguale. All’ultimo pigliò sonno anche lui. Ora tutti e tre dormivano. Dal finestrone di faccia, sgusciando per una larga strappatura alle stecche della gelosia sgangherata, un vivo chiarore di luna entrava nella camera, risalendo dolcemente per la parete. E, in quella tenera incertezza di luce che li lambiva appena, ondulando, le faccie impallidivano lucenti di sudore, con le bocche schiuse, le sopracciglia stese, le narici all’aria, nere e profonde. Immoto, una mano aperta sul petto, il fanciullo sorrideva, sognando di sguazzar nelle pozzanghere ove i compagni cadevano a spintoni, impoltigliandosi come porcelli. Nella notte triste della stanzuccia immagini di bimbo aleggiavano rapidamente in una luce indefinibile. Tornavano col sonno al piccolo dormiente le care ingenuità d’infanzia, pure e serene in quel torpore di malizia sopita.

All’alba, come il sole era già entrato nella stanza, allo svegliarsi n’ebbero gli occhi così feriti che non si potevano guardar in faccia e se li stropicciavano coi pugni chiusi, sbadigliando, stirando le braccia che l’inerzia della nottata aveva addormite.

— Che tempo fa? — chiese Ciro a quello della panchetta che sbirciava attraverso all’inferriata.

— Bella giornata, — rispose l’altro, senza voltarsi.

Il ragazzo s’arrampicò sul parapetto e dopo un momento ch’era stato a guardare:

— Ecco Gennarino! — esclamò. — Ci vengono a chiamare….

Saltò a terra, sgambettando per l’allegrezza. L’altro, preparandosi, s’acconciava i capelli sotto il berretto, riannodando la cravatta di cui il fiocco gli era girato sulla nuca.

— Ve n’andate? — disse Ciro alzandosi.

— Ora ci chiamano, — rispose l’altro, — vi saluto. Se volete che porti qualche imbasciata a casa vostra….

— Sentite, — disse Ciro pigliandogli la mano, — fatemi una finezza. Conoscete l’acquafrescaia all’angolo di Porta Nolana?

— Sicuro! — disse l’altro.

— Raffaele! — chiamò dal basso la voce rauca del guardiano. — Chi è Raffaele?…

— Ora vengo! — strillò quello della panchetta.

— Abbiate pazienza, — supplicava Ciro, stringendogli la mano mentre quegli cominciava a moversi. — Laggiù, dimandate di Teresa, è una vecchia che tutti la sanno…. Ha un fazzoletto nero al collo…. Ditele che non abbia paura….

— Nient’altro?…

— Abbiate pazienza, — continuò Ciro accompagnandolo, — ditele che se vuol venire a San Francesco domenica che è giorno d’entrata…. No, no, non le dite così…. Ditele che è stata una rissa e m’hanno preso ubriaco…

— Va bene…. va bene, — promise l’altro, scendendo la scaletta.

— Sentite…. le baciate la mano per me…. Vi ricordate?… Vi ricordate?…

Nessuno rispose. Raffaele era sparito. Ciro risalì i due scalini tremando sulle gambe. Si guardò attorno: ora lo lasciavano solo come un cane, sbattendogli il cancello alle spalle, senza nemmeno guardargli in faccia.

Andò a sedere sul tavolaccio e nascose la testa nelle mani puntando i gomiti sulle ginocchia, le gambe penzoloni.

— Pazienza! — mormorò dopo un momento.

E si mise a passeggiar nella stanza, con gli occhi a terra, tutto pensoso. Ora si stancava, non sapendo che fare per distrarsi. Si andava fermando innanzi alle pareti sporche, contemplando curiosamente tutti gli sgorbii che le macchiavano. Una era addirittura illustrata da cima a fondo; una filza di numeri grossolani scendeva fino a terra, qua e là sotto ai terni e alle quintine c’era una giocata a lettere indecise, miscuglio ingenuo di maiuscole e di minuscole. Egli cercò in un angolo la traccia del suo ultimo passaggio. Era ancora lì, segnata con la carbonella in un quadratino fantastico: un cuore fiammante che una lama di pugnale trapassava a mezzo. Lì tutto il suo amore ardente e minaccioso, pieno di gelosie e di tenerezze, lì il ricordo degli occhi grandi e della bocca rossa di Vincenzella, il preludio di un tradimento e d’una rasoiata. Vi rimase innanzi, guardando, a lungo, con le labbra strette e le mani convulse. Poi sputò nel muro con un moto di collera. Ricominciò a passeggiare; la solitudine lo irritava; sbatteva i piedi a terra, fremendo, sferrando il tacco sul tavolone che vibrava con un rumore sordo e cupo. Andò al finestrone e sedette sul parapetto. Faceva freddo; laggiù nel cortile la moglie del guardiano attizzava il fuoco nel braciere, con una mano sul petto, nella piega dello scialle.

Di sotto alla gelosia, tagliato sino alla metà d’un cartellone da teatro, il muro di faccia appariva nella strada, bianca e pulita in una fredda giornata di capodanno.

Nessuno si vedeva; solo di tanto in tanto passava un mattiniero frettoloso, con le mani nelle tasche del soprabito e il naso nel bavero. A volte nell’aria fresca impazzivano sul vento migliaia di scintille rosse, venute da fiammate vicine che l’angolo di un palazzo nascondeva.

Più tardi, in quella malinconia, il sarto di faccia mise fuori ad asciugare, innanzi alla bottega, un panciotto scuro fumante, su cui aveva passato il ferro caldo.

Ciro guardava, rannicchiato nello spigolo del finestrone, le mani in saccoccia sino ai polsi. Lo consolava una strana compiacenza di quello che ora, a lui solo e chiuso, gli toccava soffrire; s’atteggiava con sè stesso a vittima temuta, sorridendo all’abitudine sua di bassezza, alle persecuzioni di cui era fatto segno.

E con la fronte appoggiata all’inferriata, la posa molle e abbandonata, canticchiò fra i denti:

Vaco sempe carcerato,

A’ casa ‘e mamma….

Ma, alla distesa, la voce gli venne meno. Era stato uno sforzo. Ora una tristezza atroce lo pigliava all’anima, spezzandogli le parole sulle labbra.

— Che brutt’anno ho cominciato!… — sospirò.

E rimase a guardar nella strada deserta, con gli occhi arsi, mentre il ferro della cancellata gli segava la fronte e il freddo malinconico della giornata gli gelava il cuore.